L’uomo ha sempre subito il fascino del molosso, ammirandone la mole, l’imponenza, l’espressione fiera e statuaria e traendone motivo per immortalarlo nella pittura, nella scultura, negli scritti e finanche nella tradizione orale. L’ammirazione e lo stupore che questo cane suscita, hanno stimolato curiosità ed interesse di viaggiatori, scrittori e studiosi sin dai tempi più remoti. Storia e leggenda, realtà e fantasia si sono alternate, sovrapposte, inscindibilmente amalgamate attorno ad esso e alla ricerca della sua origine.
In questa nostra monografia non abbiamo la presunzione di poter risolvere vecchie problematiche o di poter apportare nuovi contributi a quanto già scritto e studiato in passato, anzi ci siamo avvalsi ampiamente di ricerche già pubblicate o carpite in piacevoli discussioni con studiosi ed appassionati più eminenti, più meritevoli di noi. La nostra ambizione è quindi quella di poter offrire al lettore una panoramica, ampia e documentata, sulle ipotesi più interessanti formulate riguardo all’origine dei molossoidi.
Tra tutti gli animali domestici non vi è dubbio che il cane sia quello che l’uomo ritiene più vicino a se stesso, non solo perché è stato il primo o uno dei primi ad essere addomesticato, ma soprattutto perché, nel corso dei millenni, è stato, con maggiore attenzione, plasmato ed adattato alle necessità e agli impieghi di cui di volta in volta l’uomo abbisognava.
ll risultato è meraviglioso e stupefacente al tempo stesso: una varietà innumerevole di forme, dimensioni, mantelli e caratteri, in una gamma che va dall’elegante al grottesco, specchio fedele ed impietoso di grandezze e meschinità della specie umana.
Tale processo di domesticazione non poteva non attrarre l’interesse di studiosi e ricercatori, i quali, nell’approfondire la tematica dell’origine del cane, si sono divisi, pur con argomentazioni e presupposti diversi, in due linee di pensiero. La prima è quella di coloro che sostengono che tutte le razze discendono da un unico, primitivo, canide selvatico. Tra i sostenitori di tale teoria, detta «monofiletica», troviamo il Linneo (1707-78), fondatore della sistematica, il Cuvier (1769-1832), iniziatore dell’anatomia comparata, e il celebre naturalista Buffon (1707-88). Altri sostengono invece la discendenza e l’evoluzione delle diverse razze da ceppi originari molteplici. Questa teoria, detta «polifiletica», annovera tra i suoi sostenitori di maggior fama Charles Darwin (1809-82), padre della teoria evoluzionistica della specie, e Konrad Lorenz, fondatore dell’etologia.
NeL’Origine della Specie Ch. Darwin (Ed. Boringhieri 1967) scrive: «… è stato spesso affermato con molta leggerezza, che tutte le nostre razze di cani derivano dall’incrocio di poche specie primitive; ma dall’incrocio si ottengono solamente forme in vario grado intermedie a quelle dei genitori; e se vogliamo spiegare con questo processo l’esistenza delle nostre numerose razze domestiche, dovremmo ammettere la precedente esistenza delle forme più estreme allo stato selvatico. Chi può credere infatti che molti animali molto simili al levriero italiano, al bloodhound, al bulldog, ecc., cosi diversi da tutti i canidi selvatici siano mai esistiti allo stato di natura?»
Lorenz pone invece l’accento più sulle differenze comportamentali e caratteriali, che su quelle morfologiche e neIl cane incontrò l’uomo giunge alla conclusione che solo i cani nordici discendono dal lupo, mentre tutti gli altri avrebbero il loro progenitore nello sciacallo. A tal proposito è opportuno ricordare che sia il lupo (canis lupus) che lo sciacallo (canis aureus) si dividono in numerosissime sottospecie, ognuna con caratteri morfologici peculiari. Per quanto affascinanti, tuttavia, entrambe le linee di pensiero non si basano su presupposti scientifici tali da indurre a propendere con certezza per la fondatezza dell’una o dell’altra. Anche in questo caso, specularmente a quanto avviene per l’uomo, la paleontologia offre ritrovamenti troppo scarsi e frammentari perché possa formulare col necessario rigore una storia evolutiva del cane. Ciononostante gli studi, che negli ultimi anni si stanno facendo, sulla mappa ematica e sul DNA delle popolazioni umane possono far sperare che, oltre ad una maggior conoscenza dei flussi migratori e delle parentele dei diversi gruppi antropologici, si possa pervenire a più rigorosi risultati sul passato evolutivo del cane.
Se è molto difficile individuare con certezza i progenitori del cane, molto più semplice è cercare di spiegare come l’uomo sia giunto a ottenere, attraverso la spinta selettiva, la molteplicità di razze che oggi conosciamo.
La storia dell’umanità riflette quella delle economie che l’uomo ha sviluppato e perfezionato nel corso dei secoli, per cui ad ogni sistema economico, egli ha adeguato la propria dimora, i propri manufatti e utensili, i propri animali domestici, primo fra tutti i cane. I primi gruppi umani erano nomadi, la cui sopravvivenza era basata sulla raccolta di vegetali selvatici commestibili e sulla caccia. Pochi individui, la cui struttura sociale e le cui esigenze presentavano un’eccezionale affinità con quelle dei canidi selvatici progenitori del cane. Inevitabilmente tali comunanze conducono o all’estrema competizione o alla convivenza ed assimilazione.
La prima si è concretizzata nel rapporto uomo-lupo, a testimonianza del quale permane, in parecchie culture e tradizioni, la connotazione del lupo come essere negativo per eccellenza.
La seconda si è andata evolvendo nel corso dei millenni nel rapporto uomo-cane.
È plausibile pensare che, almeno nelle fasi iniziali, la relazione fra le due specie fosse molto labile, basata sul nutrimento che i progenitori del cane potevano trarre dagli avanzi degli accampamenti umani e sullo sfruttamento della maggior abilità dei canidi ad identificare le prede da parte dei primi cacciatori. Era più un rapporto di primitiva simbiosi, che non di vera e propria addomesticazione. Quest’ultimo si sviluppò, o meglio divenne una necessità, allorquando l’uomo passò da un’economia basata sulla caccia e la raccolta ad una basata sulla pastorizia e sull’agricoltura.
Un cane ancora molto indipendente e con un preponderante istinto alla predazione mal si addiceva a convivere con il bestiame domestico e una società sempre più stanziale ed evoluta.
L’uomo aveva bisogno di un compagno con una carica aggressiva più controllabile, con una maggior capacità di adattamento ai vincoli che una società più complessa andava sviluppando. Tali qualità sono più frequenti in quei soggetti che, anche adulti, conservano caratteristiche caratteriali e morfologiche infantili. Di conseguenza anche il cane, come del resto tutti gli animali domestici, fu oggetto di una pressione selettiva in tal senso, dando stimolo ad un processo, definito per l’appunto, di «neotenia».
Nei mammiferi, in special modo in quelli carnivori, i cuccioli hanno sempre un aspetto caratterizzato da linee morbide, arrotondate, stimoli inibitori di aggressività inequivocabili per l’adulto. Il cucciolo di lupo, in particolare, è tozzo, con orecchie pendenti, muso corto, forme che poco hanno a che vedere con quelle allungate e spigolose dell’animale maturo.
Nei molossoidi, pur mitigati dalla possanza e dall’impotenza che questi cani hanno da adulti, i caratteri infantili sono ben visibili nel cranio ampio, nel muso corto, nell’ampiezza dei diametri trasversi. Anche le connotazioni caratteriali sono in linea con quelle morfologiche. In tutte le razze molossoidi si riscontra in genere una maggiore dipendenza dall’uomo, un senso del possesso territoriale preponderante rispetto all’istinto di predazione, una duttilità e una ecletticità nel ricoprire ruoli e mansioni diverse, che ci ricordano inequivocabilmente l’istinto della tana, di dipendenza dalla madre, di curiosità e di voglia di apprendere tipiche dei cuccioli. Proprio per questo il molosso è, più di altre razze, un cane nato con l’uomo e per l’uomo. Tale considerazione ci aiuta a capire perché esso, pur essendo un esempio di domesticazione molto spinta ed evoluta, abbia lasciato traccia di sé sin dagli albori della civiltà umana.
Non a caso le più antiche testimonianze che comprovano l’esistenza di un cane molossoide provengono da una delle prime grandi civiltà, quella sumera, sviluppatasi intorno al III millennio a.C. in Mesopotamia.
A questo periodo si fa risalire una stupenda scultura raffigurante un molosso ritrovata a Lagash ed esposta al museo del Louvre. Sempre della stessa epoca è un‘altra scultura sumerica, proveniente dalla citta di Ur, raffigurante una cagna nell’atto di allattare i suoi cuccioli, ora esposta al museo di Chicago.
Dunque, le pianure mesopotamiche sembrerebbero essere la culla del molosso primigenio, quello da cui in linea più o meno diretta discenderebbero gli attuali molossoidi. Non tutti gli studiosi sono d’accordo con questa ipotesi ed anche in questo caso, soprattutto in passato, si sono divisi in due scuole di pensiero.
La prima vede nel mastino tibetano l’ancestrale antenato di tutti i molossi. Essi discenderebbero da una sottospecie di lupo che viveva nel Tibet in branchi di due o tre esemplari, illupus laninger, di grande taglia e particolarmente robusto, tanto da poter abbattere da solo grandi prede. Il clima freddo avrebbe favorito la selezione di cani dalla mole sempre più ragguardevole. Di fatto un animale a sangue caldo, specie se dotato di un fitto e lungo mantello, in tali condizioni trae vantaggio da una massa corporea elevata, poiché questa gli permette una più lenta dispersione del calore. Eredi del mastino tibetano sarebbero non solo tutti i cani da montagna ed in modo esemplare il San Bernardo, ma anche i molossoidi a pelo corto come sostiene il Keller, che imputa al clima caldo e assolato delle pianure indiane la causa dell’accorciamento del pelo del «grande tibetano».
Di pensiero completamente opposto è invece la seconda scuola, della quale si fa interprete Paul Megnin, sostenendo che il molosso indo-mesopotamico avrebbe sviluppato un pelo lungo e fitto in ragione del clima rigido e freddo degli altipiani tibetani.
Sono entrambe teorie suggestive, che enfatizzano il mito dell’archetipo ancestrale, unico e immutabile, trascendente tempo e spazio, e tuttavia, proprio in ragione di ciò, poco conciliabili con gli attuali parametri di ricerca scientifica.
Ciò nonostante, non si può trascurare il fatto che il molosso mesopotamico fosse chiamato dagli antichi greci «cane indiano», a conferma di una sua inequivocabile radice orientale.
La civilta indo-sumerica di Harappa, sviluppatasi a cavallo tra il III e il Il millennio a.C. nell’omonima località pakistana, fu forse una delle più importanti vie di penetrazione di questi cani nella pianura del Tigri e dell’Eufrate. Qui, nella «terra tra i due fiumi», la civiltà assira ci ha lasciato le più superbe e vive testimonianze del molosso. Questo popolo di guerrieri che, sotto la guida del re Sennacherib (704-681 a.C.), aveva esteso il proprio dominio dalla Mesopotamia alle sponde del Mediterraneo, teneva in grande considerazione i cani, tanto che proprio un cane era l’emblema del dio Gula.
Statuette di terracotta, raffiguranti molossi in atteggiamento minaccioso, venivano utilizzate per tenere lontani dalle case gli spiriti maligni. Esse venivano disposte davanti all’uscio, in genere, nel numero di cinque per parte e recavano scritto sulla parte sinistra il nome del soggetto che esprimeva la forza ed il carattere dell’animale, quali: «Non esitare, lavora ganascia»; «Conquistatore del nemico»; «Azzanna gli oppositori»; «Eliminatore dei vigliacchi»; «Forte abbaiatore»; «L’acquirente urlante».
L’arte assira ha immortalato nella pietra immagini che con eccezionale nitidezza e accuratezza riproducono questi cani. In una tavoletta ritrovata a Nimrud, databile attorno all’850 a.C. circa, è raffigurato un enorme molosso la cui altezza al garrese arriva alla cintola del suo conduttore, la pelle della testa appare lassa e forma un’abbondante giogaia sopra il collare, il muso è corto e lo stop abbastanza marcato, l’ossatura robustissima. Le gambe, in linea coi garretti, e la pesantezza dell’insieme ci fanno pensare a un cane poco adatto alla corsa e probabilmente utilizzato soprattutto come eccezionale guardiano.
Ben diversi sono i molossi incisi nei bassorilievi ritrovati a Ninive, risalenti al VII secolo a.C.: si tratta di soggetti dalla muscolatura nevrile, dalla pelle aderente, dal ventre dolcemente rimontante. I canettieri, che si apprestano a raggiungere la zona della battuta di caccia portando a spalla dei cesti di vimini, trattengono a stento i cani, che sembrano protesi a sfuggire al loro controllo, già eccitati dall’imminente azione.
Di eccezionale e crudo realismo è anche il bassorilievo che descrive i molossi impegnati nella caccia all’onagro, una specie di asino selvatico. Due cani hanno già afferrato la preda alla coscia e sotto il braccio mentre un terzo sta per raggiungere un puledro. L’accuratezza dei dettagli permette di distinguere bene le caratteristiche morfologiche dei soggetti. La testa è larga, gli occhi ben distanziati, il muso poco più di un terzo della lunghezza complessiva della testa, gli arti lunghi e robusti, in sintesi cani asciutti, dinamici, di taglia medio-grande che ricordano moltissimo l’attuale nostro Corso.
Nei bassorilievi ritrovati nel palazzo del re Ashurbanipal (669-626 a.C.) a Ninive, risalenti al 645 a.C. ca., descriventi il re impegnato nella caccia al leone, è scolpito un cane che ribadisce come questa morfologia fosse diffusa: pronto ad avventarsi contro i felini, con le orecchie all’indietro, coda tesa e denti scoperti pare farci giungere attraverso i secoli il suo ringhio sordo, la sua collera decisa.
I reperti assiri summenzionati, oggi conservati al British Museum, non hanno lo slancio artistico e la poesia di quelli sumeri. Tuttavia non bisogna lasciarsi ingannare dalla violenza delle scene in essi rappresentate. La civiltà assira ha saputo esprimersi ai massimi livelli (per l’epoca) in tutte le scienze come si può desumere proprio dalle parole di Ashurbanipal:
«lo ho studiato i cieli con gli eruditi maestri di teologia;
lo ho risolto complicati problemi di moltiplicazione e divisione, che erano lontani dal facile;
Io ho letto i testi artistici dei sumeri e gli oscuri [testi] degli accadi, difficili da interpretare;
A volte ho avuto la soddisfazione di leggere iscrizioni risalenti a prima del diluvio,
ma altre volte sono stato furioso per la mia stessa stupidità e frustrato dalla bellezza degli scritti»
I molossi assiri, prodotto di elevate conoscenze zootecniche, già delineano nelle loro tipologie, la pesante e la leggera, le linee selettive che porteranno nei secoli agli attuali molossoidi.
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L’uomo ha sempre subito il fascino del molosso, ammirandone la mole, l’imponenza, l’espressione fiera e statuaria e traendone motivo per immortalarlo nella pittura, nella scultura, negli scritti e finanche nella tradizione orale. L’ammirazione e lo stupore che questo cane suscita, hanno stimolato curiosità ed interesse di viaggiatori, scrittori e studiosi sin dai tempi più remoti. Storia e leggenda, realtà e fantasia si sono alternate, sovrapposte, inscindibilmente amalgamate attorno ad esso e alla ricerca della sua origine.
In questa nostra monografia non abbiamo la presunzione di poter risolvere vecchie problematiche o di poter apportare nuovi contributi a quanto già scritto e studiato in passato, anzi ci siamo avvalsi ampiamente di ricerche già pubblicate o carpite in piacevoli discussioni con studiosi ed appassionati più eminenti, più meritevoli di noi. La nostra ambizione è quindi quella di poter offrire al lettore una panoramica, ampia e documentata, sulle ipotesi più interessanti formulate riguardo all’origine dei molossoidi.
Tra tutti gli animali domestici non vi è dubbio che il cane sia quello che l’uomo ritiene più vicino a se stesso, non solo perché è stato il primo o uno dei primi ad essere addomesticato, ma soprattutto perché, nel corso dei millenni, è stato, con maggiore attenzione, plasmato ed adattato alle necessità e agli impieghi di cui di volta in volta l’uomo abbisognava.
ll risultato è meraviglioso e stupefacente al tempo stesso: una varietà innumerevole di forme, dimensioni, mantelli e caratteri, in una gamma che va dall’elegante al grottesco, specchio fedele ed impietoso di grandezze e meschinità della specie umana.
Tale processo di domesticazione non poteva non attrarre l’interesse di studiosi e ricercatori, i quali, nell’approfondire la tematica dell’origine del cane, si sono divisi, pur con argomentazioni e presupposti diversi, in due linee di pensiero. La prima è quella di coloro che sostengono che tutte le razze discendono da un unico, primitivo, canide selvatico. Tra i sostenitori di tale teoria, detta «monofiletica», troviamo il Linneo (1707-78), fondatore della sistematica, il Cuvier (1769-1832), iniziatore dell’anatomia comparata, e il celebre naturalista Buffon (1707-88). Altri sostengono invece la discendenza e l’evoluzione delle diverse razze da ceppi originari molteplici. Questa teoria, detta «polifiletica», annovera tra i suoi sostenitori di maggior fama Charles Darwin (1809-82), padre della teoria evoluzionistica della specie, e Konrad Lorenz, fondatore dell’etologia.
NeL’Origine della Specie Ch. Darwin (Ed. Boringhieri 1967) scrive: «… è stato spesso affermato con molta leggerezza, che tutte le nostre razze di cani derivano dall’incrocio di poche specie primitive; ma dall’incrocio si ottengono solamente forme in vario grado intermedie a quelle dei genitori; e se vogliamo spiegare con questo processo l’esistenza delle nostre numerose razze domestiche, dovremmo ammettere la precedente esistenza delle forme più estreme allo stato selvatico. Chi può credere infatti che molti animali molto simili al levriero italiano, al bloodhound, al bulldog, ecc., cosi diversi da tutti i canidi selvatici siano mai esistiti allo stato di natura?»
Lorenz pone invece l’accento più sulle differenze comportamentali e caratteriali, che su quelle morfologiche e neIl cane incontrò l’uomo giunge alla conclusione che solo i cani nordici discendono dal lupo, mentre tutti gli altri avrebbero il loro progenitore nello sciacallo. A tal proposito è opportuno ricordare che sia il lupo (canis lupus) che lo sciacallo (canis aureus) si dividono in numerosissime sottospecie, ognuna con caratteri morfologici peculiari. Per quanto affascinanti, tuttavia, entrambe le linee di pensiero non si basano su presupposti scientifici tali da indurre a propendere con certezza per la fondatezza dell’una o dell’altra. Anche in questo caso, specularmente a quanto avviene per l’uomo, la paleontologia offre ritrovamenti troppo scarsi e frammentari perché possa formulare col necessario rigore una storia evolutiva del cane. Ciononostante gli studi, che negli ultimi anni si stanno facendo, sulla mappa ematica e sul DNA delle popolazioni umane possono far sperare che, oltre ad una maggior conoscenza dei flussi migratori e delle parentele dei diversi gruppi antropologici, si possa pervenire a più rigorosi risultati sul passato evolutivo del cane.
Se è molto difficile individuare con certezza i progenitori del cane, molto più semplice è cercare di spiegare come l’uomo sia giunto a ottenere, attraverso la spinta selettiva, la molteplicità di razze che oggi conosciamo.
La storia dell’umanità riflette quella delle economie che l’uomo ha sviluppato e perfezionato nel corso dei secoli, per cui ad ogni sistema economico, egli ha adeguato la propria dimora, i propri manufatti e utensili, i propri animali domestici, primo fra tutti i cane. I primi gruppi umani erano nomadi, la cui sopravvivenza era basata sulla raccolta di vegetali selvatici commestibili e sulla caccia. Pochi individui, la cui struttura sociale e le cui esigenze presentavano un’eccezionale affinità con quelle dei canidi selvatici progenitori del cane. Inevitabilmente tali comunanze conducono o all’estrema competizione o alla convivenza ed assimilazione.
La prima si è concretizzata nel rapporto uomo-lupo, a testimonianza del quale permane, in parecchie culture e tradizioni, la connotazione del lupo come essere negativo per eccellenza.
La seconda si è andata evolvendo nel corso dei millenni nel rapporto uomo-cane.
È plausibile pensare che, almeno nelle fasi iniziali, la relazione fra le due specie fosse molto labile, basata sul nutrimento che i progenitori del cane potevano trarre dagli avanzi degli accampamenti umani e sullo sfruttamento della maggior abilità dei canidi ad identificare le prede da parte dei primi cacciatori. Era più un rapporto di primitiva simbiosi, che non di vera e propria addomesticazione. Quest’ultimo si sviluppò, o meglio divenne una necessità, allorquando l’uomo passò da un’economia basata sulla caccia e la raccolta ad una basata sulla pastorizia e sull’agricoltura.
Un cane ancora molto indipendente e con un preponderante istinto alla predazione mal si addiceva a convivere con il bestiame domestico e una società sempre più stanziale ed evoluta.
L’uomo aveva bisogno di un compagno con una carica aggressiva più controllabile, con una maggior capacità di adattamento ai vincoli che una società più complessa andava sviluppando. Tali qualità sono più frequenti in quei soggetti che, anche adulti, conservano caratteristiche caratteriali e morfologiche infantili. Di conseguenza anche il cane, come del resto tutti gli animali domestici, fu oggetto di una pressione selettiva in tal senso, dando stimolo ad un processo, definito per l’appunto, di «neotenia».
Nei mammiferi, in special modo in quelli carnivori, i cuccioli hanno sempre un aspetto caratterizzato da linee morbide, arrotondate, stimoli inibitori di aggressività inequivocabili per l’adulto. Il cucciolo di lupo, in particolare, è tozzo, con orecchie pendenti, muso corto, forme che poco hanno a che vedere con quelle allungate e spigolose dell’animale maturo.
Nei molossoidi, pur mitigati dalla possanza e dall’impotenza che questi cani hanno da adulti, i caratteri infantili sono ben visibili nel cranio ampio, nel muso corto, nell’ampiezza dei diametri trasversi. Anche le connotazioni caratteriali sono in linea con quelle morfologiche. In tutte le razze molossoidi si riscontra in genere una maggiore dipendenza dall’uomo, un senso del possesso territoriale preponderante rispetto all’istinto di predazione, una duttilità e una ecletticità nel ricoprire ruoli e mansioni diverse, che ci ricordano inequivocabilmente l’istinto della tana, di dipendenza dalla madre, di curiosità e di voglia di apprendere tipiche dei cuccioli. Proprio per questo il molosso è, più di altre razze, un cane nato con l’uomo e per l’uomo. Tale considerazione ci aiuta a capire perché esso, pur essendo un esempio di domesticazione molto spinta ed evoluta, abbia lasciato traccia di sé sin dagli albori della civiltà umana.
Non a caso le più antiche testimonianze che comprovano l’esistenza di un cane molossoide provengono da una delle prime grandi civiltà, quella sumera, sviluppatasi intorno al III millennio a.C. in Mesopotamia.
A questo periodo si fa risalire una stupenda scultura raffigurante un molosso ritrovata a Lagash ed esposta al museo del Louvre. Sempre della stessa epoca è un‘altra scultura sumerica, proveniente dalla citta di Ur, raffigurante una cagna nell’atto di allattare i suoi cuccioli, ora esposta al museo di Chicago.
Dunque, le pianure mesopotamiche sembrerebbero essere la culla del molosso primigenio, quello da cui in linea più o meno diretta discenderebbero gli attuali molossoidi. Non tutti gli studiosi sono d’accordo con questa ipotesi ed anche in questo caso, soprattutto in passato, si sono divisi in due scuole di pensiero.
La prima vede nel mastino tibetano l’ancestrale antenato di tutti i molossi. Essi discenderebbero da una sottospecie di lupo che viveva nel Tibet in branchi di due o tre esemplari, illupus laninger, di grande taglia e particolarmente robusto, tanto da poter abbattere da solo grandi prede. Il clima freddo avrebbe favorito la selezione di cani dalla mole sempre più ragguardevole. Di fatto un animale a sangue caldo, specie se dotato di un fitto e lungo mantello, in tali condizioni trae vantaggio da una massa corporea elevata, poiché questa gli permette una più lenta dispersione del calore. Eredi del mastino tibetano sarebbero non solo tutti i cani da montagna ed in modo esemplare il San Bernardo, ma anche i molossoidi a pelo corto come sostiene il Keller, che imputa al clima caldo e assolato delle pianure indiane la causa dell’accorciamento del pelo del «grande tibetano».
Di pensiero completamente opposto è invece la seconda scuola, della quale si fa interprete Paul Megnin, sostenendo che il molosso indo-mesopotamico avrebbe sviluppato un pelo lungo e fitto in ragione del clima rigido e freddo degli altipiani tibetani.
Sono entrambe teorie suggestive, che enfatizzano il mito dell’archetipo ancestrale, unico e immutabile, trascendente tempo e spazio, e tuttavia, proprio in ragione di ciò, poco conciliabili con gli attuali parametri di ricerca scientifica.
Ciò nonostante, non si può trascurare il fatto che il molosso mesopotamico fosse chiamato dagli antichi greci «cane indiano», a conferma di una sua inequivocabile radice orientale.
La civilta indo-sumerica di Harappa, sviluppatasi a cavallo tra il III e il Il millennio a.C. nell’omonima località pakistana, fu forse una delle più importanti vie di penetrazione di questi cani nella pianura del Tigri e dell’Eufrate. Qui, nella «terra tra i due fiumi», la civiltà assira ci ha lasciato le più superbe e vive testimonianze del molosso. Questo popolo di guerrieri che, sotto la guida del re Sennacherib (704-681 a.C.), aveva esteso il proprio dominio dalla Mesopotamia alle sponde del Mediterraneo, teneva in grande considerazione i cani, tanto che proprio un cane era l’emblema del dio Gula.
Statuette di terracotta, raffiguranti molossi in atteggiamento minaccioso, venivano utilizzate per tenere lontani dalle case gli spiriti maligni. Esse venivano disposte davanti all’uscio, in genere, nel numero di cinque per parte e recavano scritto sulla parte sinistra il nome del soggetto che esprimeva la forza ed il carattere dell’animale, quali: «Non esitare, lavora ganascia»; «Conquistatore del nemico»; «Azzanna gli oppositori»; «Eliminatore dei vigliacchi»; «Forte abbaiatore»; «L’acquirente urlante».
L’arte assira ha immortalato nella pietra immagini che con eccezionale nitidezza e accuratezza riproducono questi cani. In una tavoletta ritrovata a Nimrud, databile attorno all’850 a.C. circa, è raffigurato un enorme molosso la cui altezza al garrese arriva alla cintola del suo conduttore, la pelle della testa appare lassa e forma un’abbondante giogaia sopra il collare, il muso è corto e lo stop abbastanza marcato, l’ossatura robustissima. Le gambe, in linea coi garretti, e la pesantezza dell’insieme ci fanno pensare a un cane poco adatto alla corsa e probabilmente utilizzato soprattutto come eccezionale guardiano.
Ben diversi sono i molossi incisi nei bassorilievi ritrovati a Ninive, risalenti al VII secolo a.C.: si tratta di soggetti dalla muscolatura nevrile, dalla pelle aderente, dal ventre dolcemente rimontante. I canettieri, che si apprestano a raggiungere la zona della battuta di caccia portando a spalla dei cesti di vimini, trattengono a stento i cani, che sembrano protesi a sfuggire al loro controllo, già eccitati dall’imminente azione.
Di eccezionale e crudo realismo è anche il bassorilievo che descrive i molossi impegnati nella caccia all’onagro, una specie di asino selvatico. Due cani hanno già afferrato la preda alla coscia e sotto il braccio mentre un terzo sta per raggiungere un puledro. L’accuratezza dei dettagli permette di distinguere bene le caratteristiche morfologiche dei soggetti. La testa è larga, gli occhi ben distanziati, il muso poco più di un terzo della lunghezza complessiva della testa, gli arti lunghi e robusti, in sintesi cani asciutti, dinamici, di taglia medio-grande che ricordano moltissimo l’attuale nostro Corso.
Nei bassorilievi ritrovati nel palazzo del re Ashurbanipal (669-626 a.C.) a Ninive, risalenti al 645 a.C. ca., descriventi il re impegnato nella caccia al leone, è scolpito un cane che ribadisce come questa morfologia fosse diffusa: pronto ad avventarsi contro i felini, con le orecchie all’indietro, coda tesa e denti scoperti pare farci giungere attraverso i secoli il suo ringhio sordo, la sua collera decisa.
I reperti assiri summenzionati, oggi conservati al British Museum, non hanno lo slancio artistico e la poesia di quelli sumeri. Tuttavia non bisogna lasciarsi ingannare dalla violenza delle scene in essi rappresentate. La civiltà assira ha saputo esprimersi ai massimi livelli (per l’epoca) in tutte le scienze come si può desumere proprio dalle parole di Ashurbanipal:
«lo ho studiato i cieli con gli eruditi maestri di teologia;
lo ho risolto complicati problemi di moltiplicazione e divisione, che erano lontani dal facile;
Io ho letto i testi artistici dei sumeri e gli oscuri [testi] degli accadi, difficili da interpretare;
A volte ho avuto la soddisfazione di leggere iscrizioni risalenti a prima del diluvio,
ma altre volte sono stato furioso per la mia stessa stupidità e frustrato dalla bellezza degli scritti»
I molossi assiri, prodotto di elevate conoscenze zootecniche, già delineano nelle loro tipologie, la pesante e la leggera, le linee selettive che porteranno nei secoli agli attuali molossoidi.
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