Molosso dell’Epiro, canis pugnax romano, pugnaces britanniae e molosso celta, nomi enigmatici e affascinanti, che inevitabilmente trascinano la nostra immaginazione a ritroso nei secoli sino alle nostre radici etniche e culturali.
Benché questi cani occupino un posto di rilievo nella «mitologia canina» permangono molti interrogativi sulla loro origine e morfologia.
La cultura greco-romana, così ricca e dettagliata in altri campi, ci ha lasciato reperti iconografici e storiografici troppo frammentari e generici al fine di dare una soluzione con opportuna valenza storico-scientifica.
Tuttavia, il contesto storico è così ben approfondito e conosciuto, che ci permette di traslare, da settori non strettamente pertinenti alla nostra materia, frammenti importanti per ricomporre un mosaico che ci consenta, se non di dare risposte, quantomeno di fare ipotesi plausibili.
Per quanto riguarda l’origine dei molossi europei molto si è discusso e si discute se essi discendano in linea più o meno diretta da quelli mesopotamici o se si possa parlare di cani autoctoni, che hanno avuto indirizzi selettivi paralleli a quelli asiatici. Poiché i contatti e gli interscambi commerciali tra le diverse zone geografiche e le relative popolazioni erano sin dall’antichità molto frequenti è probabile che entrambe le ipotesi contribuiscano al vero. Tuttavia, è doveroso separare i nostri tentativi di approfondimento in due aree: l’Europa mediterranea e l’Europa continentale che hanno avuto, sino alla comune conglobazione nell’Impero Romano, differenti peculiarità storiche ed economiche.
Ricostruire il contesto storico dell’Europa centrale ed occidentale preromana è tutt’altro che facile.
Le antiche popolazioni celtiche e germaniche che abitavano questo vasto areale erano nomadi e non conoscevano la scrittura, di conseguenza ci si può basare solo su rarissimi reperti paleontologici e iconografici e sulla testimonianza di scrittori greci e romani dell’epoca.
Nel 1886, sulle rive del lago Bourget, in Francia, vengono rinvenuti i resti di un cane del paleolitico dal muso corto e dalla mandibola arcuata che farebbe pensare ad una tipologia molossoide. Anche in Germania, negli scavi dell’antico insediamento di Maching, nei pressi di Monaco, risalente all’incirca al V sec. a.C., vengono trovati dei frammenti di ossa di cani di grossa taglia che potrebbero appartenere a molossi.
Particolarmente singolare e interessante è poi la cosiddetta «situla Benvenuti», databile intorno al 600 a.C. e ora esposta al Museo Nazionale Atestino di Este, Padova. Vi è disposto un racconto su tre fasce ottenute a sbalzo, che offre un quadro sintetico della vita degli antichi Veneti. Nella II fascia, raffigurante scene di lavoro nei campi, appare un grande molosso condotto a guinzaglio, che, pur nella stilizzazione dell’esecuzione artistica, ricorda molto da vicino il grande molosso assiro della tavoletta di Nimrud. A tal proposito non può che sorprendere il trovare fra le figure, specie nella I e II fascia, animali fantastici, quali sfingi e centauri, e palmette e virgulti di chiaro influsso orientale. Ne consegue il dubbio che il cane rappresentato sia stato attinto dall’arte orientalizzante, al pari delle decorazioni di contorno, e non da un esemplare presente nella comunità che ha prodotto il manufatto. Tuttavia, esso è sbalzato nella situla come parte fondamentale del racconto e non come elemento decorativo.
Quantomeno curioso è approfondire l’origine degli antichi Veneti, poiché questo gruppo etnico, che si collocava in origine nell’Europa centro-orientale, si è poi frazionato con un’ampia diaspora in terre in cui è risaputa, nel passato remoto o prossimo, l’esistenza di cani molossoidi. Infatti troviamo i Veneti in Paflagonia, regione dell’Asia Minore, dove è certa la presenza del molosso mesopotamico, come ci ricorda Plinio il Vecchio nellaNaturalis Historia (Libro III), rifacendosi a Catone che li vorrebbe di stirpe troiana.
Anche Tito Livio (Historia, I, 1) e Virgilio (Eneide I, 247) ce li tramandano espulsi dalla Paflagonia e guidati, tra il XIII e il XII secolo a.C., da Antenore sulle sponde dell’Alto Adriatico. Cesare, Strabone e Polibio, che li ricordano in Gallia, e li ritengono appartenenti ai Celti i cui influssi linguistici sono ben presenti nella lingua veneta, ci fanno pensare al molosso celtico.
Erodoto, nelleHistoriae(I, 196), li ricorda presenti nella Penisola Balcanica, forse nell’Epiro, regione famosa per i suoi molossi, allorquando parla di «Veneti degli Illiri». NeI Germani, Tacito li situa nel-l’Europa centro-settentrionale, in una zona corrispondente all’attuale area di Danzica, il che ci porta col pensiero al «danziger», uno dei molossi indicati come progenitore del boxer.
Questa divagazione non vuole essere spunto per una originale e azzardata teoria tesa a rivendicare un’origine autoctona dei molossi europei, ma ci aiuta a dimostrare come queste popolazioni nomadi abbiano avuto innumerevoli occasioni di contatto e di scambio con aree geografiche e genti in cui i molossi erano una presenza certa. Del resto, l’Europa celta ricopriva un ampio areale che andava dall’Europa centrale, alla Penisola Iberica e alle Isole Britanniche, per cui non è plausibile pensare ad un mondo racchiuso entro confini definiti.
Nel sud della Francia, la città di Marsiglia è stata prima colonia greca e poi fenicia, sotto il dominio fenicio è stata gran parte della Penisola Iberica e gli stessi Celti si erano insediati sin dal III sec. a.C. in Galizia, una regione dell’Asia Minore che da loro prese il nome.
Migrazioni, guerre, scambi commerciali hanno certamente favorito, sin dai tempi più remoti, la diffusione del molosso mesopotamico nell’Europa continentale preromana ed è plausibile ritenere che questo abbia avuto occasione di incrociarsi con cani autoctoni simili, quantomeno per taglia, originando popolazioni canine con proprie peculiarità. Caso esemplare sono ipugnaces britanniae che, forse giunti nelle Isole Britanniche nel V sec. a.C. a seguito del navigatore fenicio Medacrito che vi cercava stagno e zinco, forse arrivati dalla più vicina Gallia, vennero selezionati con caratteristiche morfologiche e caratteriali tali da venir mitizzati dagli stessi conquistatori Romani per potenza e ferocia. Queste qualità non dovevano essere sconosciute nemmeno ai vicini Galli, se Strabone (60 a.C.-20 d.C.), storico greco trapiantatosi a Roma intorno al 45 a.C., scrive che essi ne importarono un gran numero dalla Britannia per farli combattere al loro fianco (Geografia, libro IV, cap.5).
Un’ultima via di penetrazione dei cani molossoidi nell’Europa continentale, che è doveroso prendere in considerazione, è quella degli ancestrali flussi migratori delle popolazioni indoeuropee che, a partire dal II millennio a.C., provenienti dagli altipiani iranici e anatolici e dalle steppe russe, colonizzarono ad ondate successive il continente. Infatti è plausibile pensare che in queste spinte di popoli da oriente ad occidente, che ebbero il loro apice all’epoca delle invasioni barbariche col crollo dell’Impero Romano e che continuarono sino al basso Medioevo, parenti stretti dell’antico molosso sumero abbiano percorso gli stessi cammini di quelle antiche tribù. Se per il molosso nell’Europa continentale preromana si possono fare solo delle deduzioni, pur suffragate da interessanti riscontri storici, più facile è delineare un quadro della sua espansione nell’Europa mediterranea ed in particolare in Grecia ed in Italia.
L’Impero Persiano, che sostituì quello assiro nel ruolo di potenza egemone in Medio Oriente, contribuì certamente alla diffusione dei molossi nell’area del Mediterraneo. I Persiani ci hanno lasciato testimonianza del massiccio impiego per scopi bellici che essi facevano di questi cani. Il loro re Ciro il Grande (600-528 a.C.), anche grazie al contributo dei suoi poderosi cani, inflisse una terribile sconfitta al re di Lydia, Alyates che, pure, aveva addestrato molossi da guerra, nella battaglia di Thymbrè, tanto da soggiogarne il regno nel 546 a.C. Anche l’esercito egiziano, nel corso dell’aggressione persiana del 505 a.C., ebbe la sventura di entrare in contatto con questo tremendo strumento di guerra.
L’ecletticità, con cui i molossi si adattavano ai diversi impieghi, fu alla base del successo che questi ebbero presso l’aristocrazia di molti popoli medio-orientali e anatolici. Oltre ai Persiani, anche Medi e Ittiti utilizarono tali cani, non solo per scopi bellici, ma anche per la guardia, la caccia, la difesa del bestiame. Il fatto che l’alto costo di mantenimento e la necessità di una selezione particolarmente accurata abbiano reso il molosso una tipologia canina eccezionalmente pregiata e ricercata, deve aver stimolato non poco gli appetiti commerciali dei mercanti, fenici e greci in primo luogo, che ebbero di sicuro un ruolo non indifferente nel portare questi cani a toccare un gran numero di porti mediterranei.
Erodoto (480-430 a.C.) ci lascia nelle sueHistoriaeun significativo esempio di come i molossi fossero tenuti in grande considerazione. Infatti, parlando di Tritantecmes, satrapo di Babilonia al tempo della dominazione persiana, scrive: «Egli tenne un così gran numero di cani indiani che quattro villaggi della pianura erano esenti da qualsiasi tassa a condizione che procurassero il cibo per i cani».
La II guerra greco-persiana (480 a.C.) fu occasione di triste conoscenza per le schiere elleniche dei cani da guerra impiegati contro di loro dall’esercito del re persiano Serse.
Certamente il terrore che questi molossi incutevano nei militi non doveva essere solo psicologico se Ctesia di Cnido (400 a.C. ca.), medico personale del re persiano Artaserse Memmone, li descriveva dalla taglia talmente imponente da osare lottare persino col leone. Ipotizzava, inoltre, che i cani indiani, da lui osservati a corte, discendessero dai cani babilonesi ed aggiungeva che i Cinomolgi, tribù barbare del sud dell’Etiopia, li utilizzavano per difendersi dalle periodiche invasioni di bufali selvatici. Inevitabile andare col pensiero ai bassorilievi assiri di due secoli e mezzo prima descriventi il re Ashurbanipal a caccia di leoni. L’impiego di cani indiani per difendersi dai bufali nella pianura mesopotamica è ricordato anche da Senofonte (427-355 a.C.) nella suaAnabasi.
Il grande filosofo Aristotele (384-322 a.C.), nella sua Storia degli animali, distingue per la prima volta il molosso dal cane indiano. Infatti nel libro III scrive: «… in Epiro sono grandi gli altri quadrupedi, ma soprattutto enormi i buoi e i cani…»; in seguito, nel libro IX, in cui menziona sette razze di cani distinte in base alla provenienza geografica senza però farne una descrizione morfologica: «La razza dei cani molossi, anch’essa da caccia, non differisce in niente dalle altre, se non perché segue le greggi ed eccelle per la grandezza ed il coraggio in virtù dei quali vince le fiere. Inoltre, sono eccellenti sia per forza che per coraggio, quei cani che nascono dall’una e dall’altra razza, degli epirotici e dei laconici». Nella stessa opera al libro VIII accenna ai cani indiani, riportando la leggenda secondo la quale essi sarebbero frutto di un incrocio tra un cane e una tigre, ben specificando che solo la terza generazione era utilizzata, in quanto le prime due sarebbero state troppo feroci. Quest’ultima affermazione, che può far sorridere per la sua tonalità epica e per lo scarso contenuto scientifico, tuttavia aiuta ad immaginare quale taglia e potenza fisica potessero avere tali cani. Inoltre, il richiamo alla tigre e non al leone, a quel tempo molto diffuso in quell’area geografica, potrebbe alludere a una tigratura dei mantelli. Di grande rilievo è anche la distinzione che Aristotele traccia tra i due cani, gli indiani e gli epirotici, in quanto dimostra come già nel IV sec. a.C., nell’Epiro, regione montuosa della Grecia confinante con l’Albania, presso l’antico popolo dei Molossi, che diede il nome a quell’ampia stirpe di cani che per caratteristiche morfologiche simili vengono oggi chiamati molossoidi, i grandi cani mesopotamici avessero trovato nuova patria.
Filippo II di Macedonia (su cui regnò dal 360 al 336 a.C.), padre di Alessandro Magno, e non a caso marito dell’epirotica Olimpia, impiegò schiere di grossi cani, probabilmente molossi dell’Epiro, per scovare i nemici Traci che, avendo trovato rifugio nelle foreste, sottoponevano il suo esercito a continue imboscate.
Non sappiamo con certezza se anche il figlio Alessandro abbia, al pari del padre, utilizzato a fini bellici i molossi dell’Epiro. Il giovane e geniale stratega, che in meno di undici anni, dal 334 al 324 a.C., aveva conquistato uno dei più grandi imperi che l’antichità ricordi, portando i suoi eserciti dall’Europa alla valle dell’Indo, non ci ha tramandato notizie del loro impiego. Tuttavia Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella Naturalis Historia (Libro VIII) riporta un aneddoto, che legherà nei secoli il nome del grande macedone ai molossi. Lo storico latino narra infatti di un tale Poro, re di Albania, che donò ad Alessandro, diretto in India, due cani di enorme taglia. Il primo fu ucciso da Alessandro perché indifferente al cospetto di orsi e cervi. Avutone notizia, Poro inviò al Macedone un secondo esemplare, con la raccomandazione di opporlo a ben più nobili avversari. Il molosso fu così messo a confronto con un leone e ne uscì vincitore; fu poi la volta di un elefante, il quale si accasciò a terra esausto per i continui attacchi del cane. Al pari di molti altri scrittori dell’epoca classica, Plinio si lascia trasportare dall’enfasi e dall’entusiasmo, tuttavia tale leggenda è da collegarsi ad un evento realmente accaduto.
Nel 326 a.C., nella battaglia di Boukephala, Alessandro sconfiggeva e sottometteva il regno di Poro, territorio situato tra i fiumi Jehloun e Indo. Il re sconfitto, per ingraziarsi il Macedone vincitore e per consolarlo della perdita dell’amato cavallo Bucefalo, gli donò i cani summenzionati. Uno di questi, Perite, fu così caro al padrone, che Alessandro, similmente a quanto fece con Bucefalo, gli dedicò il nome di una città. Plinio purtroppo non descrive la morfologia di tali molossi, anche se parlando dei cani indiani, sempre nellaNaturalis Historia, riprende la leggenda, già menzionata più di quattro secoli prima da Aristotele, che li fa discendere da un incrocio tra un cane ed una tigre.
Un più concreto aiuto ad immaginarli lo fornisce lo storico greco Megastene che, inviato nel 302 a.C., da Seleuco re di Siria, in missione presso il re indiano Chandragupta, descrive la potente muscolatura, l’enorme ossatura e la testa grossa, dei cani là osservati.
L’iconografia ellenistica del periodo, purtroppo, è molto parca di raffigurazioni riguardanti il molosso e le poche sculture pervenuteci descrivono un cane che, pur con indubbie influenze molossoidi, si discosta molto, sia dai molossi mesopotamici, sia da quelli attuali. Il muso è circa i cinque decimi della lunghezza complessiva della testa, il pelo del collo è lungo come pure quello della coda, che appare frangiato; e tuttavia questi cani, nell’insieme robusti, dal petto ampio, ci ricordano molto più un incrocio tra il cane da pastore abruzzese e il molosso, che non i grandi cani dei bassorilievi assiri. Del resto, è risaputo che i pastori, sin dai tempi più remoti, hanno utilizzato il molosso per rinsanguare ed irrobustire i loro grandi cani bianchi, i canipastoralesdescritti dai latini Varrone e Columella. Tale uso era comune sino alle soglie dei nostri giorni, tanto che il mezzocorso, un incrocio tra pastore abruzzese e Cane Corso, è ancora molto apprezzato nel Meridione italiano.
Si può quindi azzardare l’ipotesi che il tempo e il caso abbiano tenacemente occultato testimonianze artistiche più esplicite ed esaurienti, atte a soddisfare la curiosità e le ricerche di tanti appassionati che rincorrono nei secoli le tracce dell’antico molosso. L’arte e la storiografia latina rafforzano questa nostra convinzione, in quanto descrivono con molta efficacia un molosso simile a quelli mesopotamici.
Il tentativo di ricostruire il percorso che ha condotto il nostro cane in Italia è cosa ardua. La nostra penisola, protesa nel Mediterraneo, è da sempre crocevia di commerci e di popoli e, è risaputo, tutte le strade portano a Roma.
Oltre ai già citati mercanti greci e fenici, non si può non ricordare la massiccia presenza di colonie greche nel nostro Meridione sin dall’VIII sec. a.C., tanto che questa terra si guadagnò il nome di Magna Grecia. Pertanto è molto probabile che nei frequenti contatti con la madre patria qualche esemplare sia giunto sulle nostre coste.
Non è da escludere, inoltre, che anche gli Etruschi fossero in possesso di cani molossoidi. Nella cosiddetta «situla della Certosa», esempio di arte etrusca della fine del VI sec. a.C., conservata al Civico Museo Archeologico di Bologna, sono decorati a sbalzo, in quattro fasce, momenti di vita degli antichi Felsinei. Le fasce che ci interessano sono due. Nella prima è rappresentato un cane al seguito di contadini che rientrano dai campi, nella seconda un cane coi cacciatori che ritornano dalla caccia. Entrambi i soggetti sono di chiara tipologia molossoide ed in special modo il secondo ci ricorda il Cane Corso.
I Romani fecero con tutta probabilità la conoscenza col molosso, utilizzato quale strumento bellico, nelle battaglie di Eraclea (280 a.C.) e di Ascoli Satriano (279 a.C.) combattute contro le schiere di Pirro, re dell’Epiro. Tuttavia, la prima fonte storica, a noi pervenuta, in cui si parla esplicitamente dei cani epirotici è di Tito Livio (59 a.C.- 17 d.C.), il quale, nelleHistoriaeracconta che il console Paolo Emilio, dopo aver sconfitto nella battaglia di Pidna (168 a.C.) Perseo re di Macedonia, al ritorno a Roma fece seguire il suo carro trionfale da almeno cento molossi dell’Epiro.
I Latini, da popolo molto pragmatico quale erano, apprezzarono immediatamente le caratteristiche di tali cani, che per il loro spirito vennero ribattezzaticanes pugnaces e cioè «combattenti».
Anche le campagne di guerra condotte contro i barbari furono per i Romani occasione di contatto con i molossi. Il già citato Plinio il Vecchio narra nellaNaturalis Historia (Libro VIII) che, quando le legioni del console Caio Mario sterminarono ai Campi Raudii, presso Vercelli, nel 101 a.C., le orde dei Cimbri, i cani di questi ultimi difesero strenuamente l’accampamento dei vinti dai soldati che vi cercavano bottino.
Sempre nello stesso libro l’Autore racconta di un re dei Garamanti (una popolazione berbera del Fezzan, Libia, sottomessa dai Romani nel 19 a.C.) che, grazie all’aiuto di duecento cani che combattevano i suoi oppositori, ritornò dall’esilio.
Le campagne di Gallia furono opportunità di incontro col molosso celta. Appiano (90-165 d.C.), storico greco trapiantato nell’Urbe, ci tramanda nelleStorie di Roma (Libro XIIDe Rebus Gallicis) che i Romani, in guerra con gli Allobrogi, ricevettero gli ambasciatori inviati dal loro re Betuito, scortati da grossi cani quali guardie del corpo.
Le legioni di Giulio Cesare, allorquando nel 55 a.C. invasero la Gran Bretagna, oltre ai feroci e selvaggi Britanni, i quali combattevano con molta coreografia, ma scarsa efficacia, a corpo nudo ed interamente dipinto, ebbero a preoccuparsi più dei loro cani.
Questi ultimi, descritti dalla taglia imponente, la bocca larga e un’aggressività indomita, suscitarono un tale rispetto nei legionari che meritarono l’appellativo dipugnaces britanniae. Questi molossi furono, con molta probabilità, usati per rinsanguare ilpugnaxromano, al fine di rafforzarne la taglia e la tempra, ma non si può escludere che anche il molosso romano abbia contribuito, a sua volta, in modo determinante alla loro selezione.
A differenza di molti altri popoli, non ci sono pervenute cronache di un massiccio impiego bellico dei cani da parte degli eserciti romani anche se negli Stratagemata, Polieno (Il sec. d. C.) scrive che i Romani addestravano quali ausiliari bellici cani specializzati nell’attacco, nella difesa e nel recare messaggi.
Si può presumere che l’alto livello tecnico e strategico raggiunto dagli ufficiali, combinato alla straordinaria efficienza e disciplina dei militi, abbiano reso superfluo il loro impiego, quantomeno nelle battaglie campali. Ciononostante, le loro qualità di combattenti non mancarono di destare l’interesse dei Romani.
Sempre Plinio il Vecchio ci tramanda nella Naturalis Historia (Libro VIII) che gli abitanti di Colafane e quelli di Gastabala, antiche città greche, usavano tenere delle coorti di cani addestrati per la guerra e, con pragmatismo, commenta: «Combattevano in prima linea senza mai rifiutarsi; costituivano truppe ausiliarie fidatissime e non abbisognavano di stipendio».
In battaglia i molossi venivano bardati con collari in cuoio rigido irti di punte accuminate e con un giaco, sempre di cuoio indurito o di maglia metallica, che aveva la funzione di proteggerli da frecce e lanci di altri oggetti contundenti. Per rendere più efficace la loro azione offensiva veniva fissato sul loro pettorale un breve spiedo e, ad altri, dettipiriferi, portatori di fuoco, si assicurava sul dorso della corazza un vaso ricolmo di sostanze resinose accese. Così acconciati, i cani erano particolarmente efficaci e temibili specie contro la cavalleria, in quanto, oltre alle ferite che procuravano con i loro strumenti di offesa, seminano panico e ustioni tra i cavalli.
Anche se non impiegati in battaglia, l’esercito romano si servì dei cani quali ausiliari. Si può affermare, con un elevato grado di attendibilità, che i molossi utilizzati fossero essenzialmente di due tipi, che riproducevano con un certo parallelismo quelli raffigurati nei bassorilievi assiri: il pesante ed il leggero.
Il primo, imponente ma scarsamente dinamico, era il guardiano per eccellenza delle fortificazioni e deicastra; il secondo, dalla muscolatura asciutta e nevrile, era il fido compagno dei militi nell’inseguimento del nemico e nella caccia. Ambedue hanno dato un apporto fondamentale alla formazione delle moderne razze molossoidi europee. Molti studiosi ritengono infatti che questi cani, incrociatisi con cani autoctoni, e sottoposti ad una selezione che teneva conto di funzioni e condizioni ambientali diverse, abbiano originato nel corso dei secoli il rottweiler e il bullenbeisser in Germania, il San Bernardo ed i grandi bovari in Svizzera, il dogue de Bordeaux in Francia, il perro da presa in Spagna, il mastiff in Gran Bretagna.
Come per i Greci, che immolavano cani ad Artemide, dea della caccia, ad Ermes, messaggero degli dèi e ad Ares, dio della guerra (ai primi due era sacro il cane, al terzo il lupo), anche per i Romani i cani facevano parte dei riti di culto.
Il 15 febbraio di ogni anno si tenevano i ludi lupercali, feste di purificazione in onore dell’antico dio latino Luperco, dapprima identificato col lupo sacro a Marte (Ares per i Greci) e poi con Fauno, il benefico dio italico protettore dei boschi, dei campi e delle greggi. Nella grotta naturale alle pendici del Monte Palatino, che costituiva il santuario del dio, venivano sacrificati dei cani, al fine di ingraziarsi quest’ultimo perché tenesse lontano i lupi dal bestiame.
Pelli di cane erano usate per ricoprire i Lari, spiriti benigni di origine etrusca, che, rappresentati in forma di adolescenti, venivano posti in coppia ai lati del focolare, al fine di vegliare sulle fortune della casa e di proteggere la famiglia. Ai cani, inoltre, i Romani, come i Greci, affidavano la custodia dei templi.
Genericamente i Latini dividevano le tipologie canine in base alle loro funzioni ed attitudini. Vi erano così ivenatici, adibiti alla caccia, ipastorales, impiegati per sorvegliare greggi e mandrie ed ivillatici, utilizzati per la guardia di ville e proprietà.
Categorie molto ampie che, a parte qualche ulteriore sottoclassificazione, quale iceleres, cioè gli inseguitori della selvaggina, ed i gia citatipugnaces, non permettono di discernere delle vere e proprie razze, le quali continuano invece ad essere distinte in base al luogo di origine geografica.
Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) non sfugge a questa usanza e infatti, nelDe re rustica (Libro II), parla di cani epirotici, laconici, salentini, ecc… Inoltre, parlando dei cani bovari scrive che, al fine di evitare che essi siano feriti dalle fiere, si fanno loro indossare dei collari, detti melli, costituiti da una striscia di duro cuoio dalla quale spuntano dei chiodi che, ribattuti all’interno, sono a loro volta ricoperti di morbida pelle. Tali collari sono molto simili a quelli ancor oggi utilizzati per i Cani Corsi.
Il grande poeta latino Publio Virgilio Marone (70- 19 a.C.) accenna a una descrizione morfologica del molossus: «testa enorme, orecchie pendenti, robusta ossatura, mantello scuro, zampe grosse ed unghie forti». NelleGeorgiche(Libro III) si sofferma sulla combinazione di razze ottimali al fine di un’efficace guardia della proprietà: «Non sia per i cani l’ultimo pensiero — ma insieme veloci cuccioli di Sparta pasci di pingue siero e il feroce molosso — con tale guardia non dovrai temere il ladro notturno né gli assalti dei lupi né alle spalle libero ladrone indomito».
Ma è Lucio Iunio Moderato Columella (I sec. d.C.) che ci tramanda la più viva testimonianza del molosso dell’era classica. Scrive infatti nelDe re rustica «Il cane guardiano deve essere nero, poiché di giorno la sua figura intimorisce maggiormente il maleintenzionato; e quando questi arrivasse di notte, simile alle tenebre e confuso con queste, potra aggredirlo senza essere visto. La testa è così grande che sembra la parte più imponente del corpo, le orecchie cadenti pendono in avanti, gli occhi neri o grigio chiaro sono penetranti, il petto ampio e villoso, le spalle larghe, gli arti potenti, dita e unghie forti, è preferibile abbia una costruzione compatta, piuttosto che tozza o lunga. Il carattere non deve essere né troppo mite, né riguardoso, né mordace… È sufficiente siano duri e non festosi… Al fine di una coscienziosa guardia devono essere, non solo vigili e temerari, ma soprattutto costanti e cauti… Svolgeranno bene il loro compito se, avvertendo l’odore dell’intruso, con astuzia, prima lo spaventeranno con il latrato e poi lo attaccheranno con assiduità se questi si fa avanti. La prima qualità è infatti quella di non lasciarsi sorprendere, la seconda quella di reagire con coraggio e tenacia se provocati». Oltre alla dettagliata descrizione morfologica, Columella si sofferma sulle doti caratteriali, che certamente non sono estranee all’appassionato del Cane Corso.
Un toccante esempio dell’importanza che la civiltà latina dava all’efficacia dei cani da guardia come protettori della persona e della proprietà ci viene dagli scavi archeologici di Pompei, in cui la coltre di cenere che copre la città in seguito all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ha preservato incomparabilmente nel tempo la drammatica dinamica della catastrofe. Tra i tanti reperti vi è quello del corpo di un grosso cane steso, a protezione, su quello di un bambino. La loro storia è raccontata dalle incisioni sul collare dell’animale. Il cane, di nome Delta, aveva salvato la vita del padroncino, Severino, in ben tre occasioni. Nella prima, lo aveva tratto in salvo allorquando rischiava d’annegare; nella seconda aveva sventato un tentativo di rapimento da parte di quattro malfattori; nella terza lo aveva difeso dall’attacco di un lupo mentre si stavano recando ad Ercolano in pellegrinaggio al tempio di Diana. Mentre i lapilli del vulcano stavano coprendo la città, Delta, ancora una volta stava cercando di salvare la vita di Severino in un eroico quanto vano tentativo di onorare il suo ruolo di protettore.
Anche il poeta greco Oppiano di Siria (III sec. d.C.) nelCynegetikon(Libro I) ci fornisce utili indicazioni. Infatti, come altri autori, distingue le razze sulla base della provenienza geografica (molossi, celtici, iberici, ecc…), tuttavia, dopo aver descritto un cane di grande taglia, dalla testa piatta, sopracciglia unite e labbra pendenti, si raccomanda di preservare nella selezione le moli più imponenti dall’incrocio con cani meno prestanti. Quest’ultimo suggerimento non può non essere apprezzato dagli allevatori di molossoidi, che ben sanno come le loro razze tendono sempre, in mancanza di selezione accurata, a tornare al normotipo, vale a dire al tipo medio di cane con caratteristiche lupoidi, da cui discendono. II che ci fa supporre che gli antichi, nonostante gli scarsi accenni alle descrizioni morfologiche delle diverse razze, fossero ben consci dei criteri di selezione zootecnica necessari al fine di preservare le loro caratteristiche morfo-funzionali.
L’iconografia romana è parca di raffigurazioni e tuttavia, coniugata alle testimonianze scritte, ben ci aiuta ad immaginare il canis pugnax. In un sarcofago romano del II sec. d.C., conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze, sono scolpiti a bassorilievo dei molossi che nel tipo ricordano molto da vicino il Cane Corso. Cani asciutti, privi di plichettature e lassità della pelle, muscolatura lunga e nevrile, mascelle larghe, occhi ben distanziati, petto ampio, solo la taglia sembra essere notevolmente inferiore a quella del Cane Corso.
Nella Villa romana del Casale, sita nelle vicinanze di Piazza Armerina (EN) e fatta costruire dall’imperatore Massimiano Erculio a cavallo del III e IV sec. d.C., si può ammirare, nella stanza comunemente chiamata della «piccola caccia», uno stupendo mosaico che raffigura momenti venatori svoltisi probabilmente nelle vicinanze della villa. In un particolare descrivente un cinghiale ferito a morte da un cacciatore armato di picca, è inserito un bellissimo molosso fulvo pronto ad avventarsi sulla fiera. La taglia è maggiore di quella dei cani degli Uffizi, ma i tratti somatici sono molto simili; in sintesi, un cane di taglia me- dio-grande, dalla muscolatura molto ben sviluppata, che gli conferisce un aspetto solido, compatto, privo di ogni pesantezza.
Se l’iconografia sembra celebrare soprattutto il molosso nella sua conformazione più leggera, simile all’attuale Cane Corso, è doveroso precisare che la storiografia comprova l’esistenza di un tipo più pesante, rassomigliante all’odierno mastino napoletano. Quando Oppiano di Siria parla di sopracciglia unite, con molta probabilità, intende descrivere le rughe che la pelle lassa forma sulla testa e Columella precisa che ha poca importanza se i cani da guardia sono di corporatura pesante e poco veloci, in quanto devono svolgere la loro mansione camminando vicino alla casa e non lontano e di corsa, e aggiunge che le loro articolazioni presentano spesse callosità. Caratteristiche queste, che ben si addicono a un cane simile all’attuale mastino napoletano. La ragione per cui quest’ultimo è raramente rappresentato nell’iconografia, è forse dovuta al fatto che il tipo più leggero era preferito per la caccia alla selvaggina pericolosa. È infatti la mischia finale, l’epilogo cruento che questa pratica comporta, che esalta lo spirito umano e che ha portato a celebrare la scena in una lunghissima serie di rappresentazioni artistiche.
Oltre all’impiego venatorio e all’utilizzo per la guardia e la difesa della proprietà, il molosso a Roma era protagonista apprezzato dei giochi circensi. Levenationeserano quel ramo dei giochi gladiatorii in cui venivano ricostruite artificialmente scene di caccia cruente. Gli scenari e i temi erano tanto vari quanto fantasiosi e prevedevano il confronto tra gladiatori e fiere e tra belva e belva. Gli animali erano fatti confluire a Roma da tutto l’Impero e accadeva così di vedere specie provenienti da climi freddi confrontarsi con bestie equatoriali: tigri con orsi, lupi con pantere, ecc. Il già citato Strabone, ad esempio, ci ricorda che per affrontare un leone occorrono ben quattro molossi.
Quinto Aurelio Simmaco (340-402 d.C.), celebre uomo politico romano, nelle sueLetterescrive al fratello Flaviano che al Colosseo, cani importati di recente dall’Irlanda, sono stati molto applauditi per il valore dimostrato contro i leoni. L’importanza e lo spettacolo procurato daipugnacesdoveva essere notevole, tanto che esisteva un ufficiale, ilMagister et procurator canis, incaricato di sovrintendere alla selezione e allevamento degli esemplari impiegati nei ludi circensi.
Con la caduta dell’Impero Romano e il conseguente imbarbarimento sociale, economico e letterario, anche le testimonianze sul molosso si diluiscono e si affievoliscono sino quasi a scomparire.
Il nostro cane ricomparirà protagonista qualche secolo più tardi, quando i lumi dell’Umanesimo prima, e del Rinascimento poi, ridaranno luce a un cammino cominciato con la storia dell’uomo.
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Molosso dell’Epiro, canis pugnax romano, pugnaces britanniae e molosso celta, nomi enigmatici e affascinanti, che inevitabilmente trascinano la nostra immaginazione a ritroso nei secoli sino alle nostre radici etniche e culturali.
Benché questi cani occupino un posto di rilievo nella «mitologia canina» permangono molti interrogativi sulla loro origine e morfologia.
La cultura greco-romana, così ricca e dettagliata in altri campi, ci ha lasciato reperti iconografici e storiografici troppo frammentari e generici al fine di dare una soluzione con opportuna valenza storico-scientifica.
Tuttavia, il contesto storico è così ben approfondito e conosciuto, che ci permette di traslare, da settori non strettamente pertinenti alla nostra materia, frammenti importanti per ricomporre un mosaico che ci consenta, se non di dare risposte, quantomeno di fare ipotesi plausibili.
Per quanto riguarda l’origine dei molossi europei molto si è discusso e si discute se essi discendano in linea più o meno diretta da quelli mesopotamici o se si possa parlare di cani autoctoni, che hanno avuto indirizzi selettivi paralleli a quelli asiatici. Poiché i contatti e gli interscambi commerciali tra le diverse zone geografiche e le relative popolazioni erano sin dall’antichità molto frequenti è probabile che entrambe le ipotesi contribuiscano al vero. Tuttavia, è doveroso separare i nostri tentativi di approfondimento in due aree: l’Europa mediterranea e l’Europa continentale che hanno avuto, sino alla comune conglobazione nell’Impero Romano, differenti peculiarità storiche ed economiche.
Ricostruire il contesto storico dell’Europa centrale ed occidentale preromana è tutt’altro che facile.
Le antiche popolazioni celtiche e germaniche che abitavano questo vasto areale erano nomadi e non conoscevano la scrittura, di conseguenza ci si può basare solo su rarissimi reperti paleontologici e iconografici e sulla testimonianza di scrittori greci e romani dell’epoca.
Nel 1886, sulle rive del lago Bourget, in Francia, vengono rinvenuti i resti di un cane del paleolitico dal muso corto e dalla mandibola arcuata che farebbe pensare ad una tipologia molossoide. Anche in Germania, negli scavi dell’antico insediamento di Maching, nei pressi di Monaco, risalente all’incirca al V sec. a.C., vengono trovati dei frammenti di ossa di cani di grossa taglia che potrebbero appartenere a molossi.
Particolarmente singolare e interessante è poi la cosiddetta «situla Benvenuti», databile intorno al 600 a.C. e ora esposta al Museo Nazionale Atestino di Este, Padova. Vi è disposto un racconto su tre fasce ottenute a sbalzo, che offre un quadro sintetico della vita degli antichi Veneti. Nella II fascia, raffigurante scene di lavoro nei campi, appare un grande molosso condotto a guinzaglio, che, pur nella stilizzazione dell’esecuzione artistica, ricorda molto da vicino il grande molosso assiro della tavoletta di Nimrud. A tal proposito non può che sorprendere il trovare fra le figure, specie nella I e II fascia, animali fantastici, quali sfingi e centauri, e palmette e virgulti di chiaro influsso orientale. Ne consegue il dubbio che il cane rappresentato sia stato attinto dall’arte orientalizzante, al pari delle decorazioni di contorno, e non da un esemplare presente nella comunità che ha prodotto il manufatto. Tuttavia, esso è sbalzato nella situla come parte fondamentale del racconto e non come elemento decorativo.
Quantomeno curioso è approfondire l’origine degli antichi Veneti, poiché questo gruppo etnico, che si collocava in origine nell’Europa centro-orientale, si è poi frazionato con un’ampia diaspora in terre in cui è risaputa, nel passato remoto o prossimo, l’esistenza di cani molossoidi. Infatti troviamo i Veneti in Paflagonia, regione dell’Asia Minore, dove è certa la presenza del molosso mesopotamico, come ci ricorda Plinio il Vecchio nellaNaturalis Historia (Libro III), rifacendosi a Catone che li vorrebbe di stirpe troiana.
Anche Tito Livio (Historia, I, 1) e Virgilio (Eneide I, 247) ce li tramandano espulsi dalla Paflagonia e guidati, tra il XIII e il XII secolo a.C., da Antenore sulle sponde dell’Alto Adriatico. Cesare, Strabone e Polibio, che li ricordano in Gallia, e li ritengono appartenenti ai Celti i cui influssi linguistici sono ben presenti nella lingua veneta, ci fanno pensare al molosso celtico.
Erodoto, nelleHistoriae(I, 196), li ricorda presenti nella Penisola Balcanica, forse nell’Epiro, regione famosa per i suoi molossi, allorquando parla di «Veneti degli Illiri». NeI Germani, Tacito li situa nel-l’Europa centro-settentrionale, in una zona corrispondente all’attuale area di Danzica, il che ci porta col pensiero al «danziger», uno dei molossi indicati come progenitore del boxer.
Questa divagazione non vuole essere spunto per una originale e azzardata teoria tesa a rivendicare un’origine autoctona dei molossi europei, ma ci aiuta a dimostrare come queste popolazioni nomadi abbiano avuto innumerevoli occasioni di contatto e di scambio con aree geografiche e genti in cui i molossi erano una presenza certa. Del resto, l’Europa celta ricopriva un ampio areale che andava dall’Europa centrale, alla Penisola Iberica e alle Isole Britanniche, per cui non è plausibile pensare ad un mondo racchiuso entro confini definiti.
Nel sud della Francia, la città di Marsiglia è stata prima colonia greca e poi fenicia, sotto il dominio fenicio è stata gran parte della Penisola Iberica e gli stessi Celti si erano insediati sin dal III sec. a.C. in Galizia, una regione dell’Asia Minore che da loro prese il nome.
Migrazioni, guerre, scambi commerciali hanno certamente favorito, sin dai tempi più remoti, la diffusione del molosso mesopotamico nell’Europa continentale preromana ed è plausibile ritenere che questo abbia avuto occasione di incrociarsi con cani autoctoni simili, quantomeno per taglia, originando popolazioni canine con proprie peculiarità. Caso esemplare sono ipugnaces britanniae che, forse giunti nelle Isole Britanniche nel V sec. a.C. a seguito del navigatore fenicio Medacrito che vi cercava stagno e zinco, forse arrivati dalla più vicina Gallia, vennero selezionati con caratteristiche morfologiche e caratteriali tali da venir mitizzati dagli stessi conquistatori Romani per potenza e ferocia. Queste qualità non dovevano essere sconosciute nemmeno ai vicini Galli, se Strabone (60 a.C.-20 d.C.), storico greco trapiantatosi a Roma intorno al 45 a.C., scrive che essi ne importarono un gran numero dalla Britannia per farli combattere al loro fianco (Geografia, libro IV, cap.5).
Un’ultima via di penetrazione dei cani molossoidi nell’Europa continentale, che è doveroso prendere in considerazione, è quella degli ancestrali flussi migratori delle popolazioni indoeuropee che, a partire dal II millennio a.C., provenienti dagli altipiani iranici e anatolici e dalle steppe russe, colonizzarono ad ondate successive il continente. Infatti è plausibile pensare che in queste spinte di popoli da oriente ad occidente, che ebbero il loro apice all’epoca delle invasioni barbariche col crollo dell’Impero Romano e che continuarono sino al basso Medioevo, parenti stretti dell’antico molosso sumero abbiano percorso gli stessi cammini di quelle antiche tribù. Se per il molosso nell’Europa continentale preromana si possono fare solo delle deduzioni, pur suffragate da interessanti riscontri storici, più facile è delineare un quadro della sua espansione nell’Europa mediterranea ed in particolare in Grecia ed in Italia.
L’Impero Persiano, che sostituì quello assiro nel ruolo di potenza egemone in Medio Oriente, contribuì certamente alla diffusione dei molossi nell’area del Mediterraneo. I Persiani ci hanno lasciato testimonianza del massiccio impiego per scopi bellici che essi facevano di questi cani. Il loro re Ciro il Grande (600-528 a.C.), anche grazie al contributo dei suoi poderosi cani, inflisse una terribile sconfitta al re di Lydia, Alyates che, pure, aveva addestrato molossi da guerra, nella battaglia di Thymbrè, tanto da soggiogarne il regno nel 546 a.C. Anche l’esercito egiziano, nel corso dell’aggressione persiana del 505 a.C., ebbe la sventura di entrare in contatto con questo tremendo strumento di guerra.
L’ecletticità, con cui i molossi si adattavano ai diversi impieghi, fu alla base del successo che questi ebbero presso l’aristocrazia di molti popoli medio-orientali e anatolici. Oltre ai Persiani, anche Medi e Ittiti utilizarono tali cani, non solo per scopi bellici, ma anche per la guardia, la caccia, la difesa del bestiame. Il fatto che l’alto costo di mantenimento e la necessità di una selezione particolarmente accurata abbiano reso il molosso una tipologia canina eccezionalmente pregiata e ricercata, deve aver stimolato non poco gli appetiti commerciali dei mercanti, fenici e greci in primo luogo, che ebbero di sicuro un ruolo non indifferente nel portare questi cani a toccare un gran numero di porti mediterranei.
Erodoto (480-430 a.C.) ci lascia nelle sueHistoriaeun significativo esempio di come i molossi fossero tenuti in grande considerazione. Infatti, parlando di Tritantecmes, satrapo di Babilonia al tempo della dominazione persiana, scrive: «Egli tenne un così gran numero di cani indiani che quattro villaggi della pianura erano esenti da qualsiasi tassa a condizione che procurassero il cibo per i cani».
La II guerra greco-persiana (480 a.C.) fu occasione di triste conoscenza per le schiere elleniche dei cani da guerra impiegati contro di loro dall’esercito del re persiano Serse.
Certamente il terrore che questi molossi incutevano nei militi non doveva essere solo psicologico se Ctesia di Cnido (400 a.C. ca.), medico personale del re persiano Artaserse Memmone, li descriveva dalla taglia talmente imponente da osare lottare persino col leone. Ipotizzava, inoltre, che i cani indiani, da lui osservati a corte, discendessero dai cani babilonesi ed aggiungeva che i Cinomolgi, tribù barbare del sud dell’Etiopia, li utilizzavano per difendersi dalle periodiche invasioni di bufali selvatici. Inevitabile andare col pensiero ai bassorilievi assiri di due secoli e mezzo prima descriventi il re Ashurbanipal a caccia di leoni. L’impiego di cani indiani per difendersi dai bufali nella pianura mesopotamica è ricordato anche da Senofonte (427-355 a.C.) nella suaAnabasi.
Il grande filosofo Aristotele (384-322 a.C.), nella sua Storia degli animali, distingue per la prima volta il molosso dal cane indiano. Infatti nel libro III scrive: «… in Epiro sono grandi gli altri quadrupedi, ma soprattutto enormi i buoi e i cani…»; in seguito, nel libro IX, in cui menziona sette razze di cani distinte in base alla provenienza geografica senza però farne una descrizione morfologica: «La razza dei cani molossi, anch’essa da caccia, non differisce in niente dalle altre, se non perché segue le greggi ed eccelle per la grandezza ed il coraggio in virtù dei quali vince le fiere. Inoltre, sono eccellenti sia per forza che per coraggio, quei cani che nascono dall’una e dall’altra razza, degli epirotici e dei laconici». Nella stessa opera al libro VIII accenna ai cani indiani, riportando la leggenda secondo la quale essi sarebbero frutto di un incrocio tra un cane e una tigre, ben specificando che solo la terza generazione era utilizzata, in quanto le prime due sarebbero state troppo feroci. Quest’ultima affermazione, che può far sorridere per la sua tonalità epica e per lo scarso contenuto scientifico, tuttavia aiuta ad immaginare quale taglia e potenza fisica potessero avere tali cani. Inoltre, il richiamo alla tigre e non al leone, a quel tempo molto diffuso in quell’area geografica, potrebbe alludere a una tigratura dei mantelli. Di grande rilievo è anche la distinzione che Aristotele traccia tra i due cani, gli indiani e gli epirotici, in quanto dimostra come già nel IV sec. a.C., nell’Epiro, regione montuosa della Grecia confinante con l’Albania, presso l’antico popolo dei Molossi, che diede il nome a quell’ampia stirpe di cani che per caratteristiche morfologiche simili vengono oggi chiamati molossoidi, i grandi cani mesopotamici avessero trovato nuova patria.
Filippo II di Macedonia (su cui regnò dal 360 al 336 a.C.), padre di Alessandro Magno, e non a caso marito dell’epirotica Olimpia, impiegò schiere di grossi cani, probabilmente molossi dell’Epiro, per scovare i nemici Traci che, avendo trovato rifugio nelle foreste, sottoponevano il suo esercito a continue imboscate.
Non sappiamo con certezza se anche il figlio Alessandro abbia, al pari del padre, utilizzato a fini bellici i molossi dell’Epiro. Il giovane e geniale stratega, che in meno di undici anni, dal 334 al 324 a.C., aveva conquistato uno dei più grandi imperi che l’antichità ricordi, portando i suoi eserciti dall’Europa alla valle dell’Indo, non ci ha tramandato notizie del loro impiego. Tuttavia Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella Naturalis Historia (Libro VIII) riporta un aneddoto, che legherà nei secoli il nome del grande macedone ai molossi. Lo storico latino narra infatti di un tale Poro, re di Albania, che donò ad Alessandro, diretto in India, due cani di enorme taglia. Il primo fu ucciso da Alessandro perché indifferente al cospetto di orsi e cervi. Avutone notizia, Poro inviò al Macedone un secondo esemplare, con la raccomandazione di opporlo a ben più nobili avversari. Il molosso fu così messo a confronto con un leone e ne uscì vincitore; fu poi la volta di un elefante, il quale si accasciò a terra esausto per i continui attacchi del cane. Al pari di molti altri scrittori dell’epoca classica, Plinio si lascia trasportare dall’enfasi e dall’entusiasmo, tuttavia tale leggenda è da collegarsi ad un evento realmente accaduto.
Nel 326 a.C., nella battaglia di Boukephala, Alessandro sconfiggeva e sottometteva il regno di Poro, territorio situato tra i fiumi Jehloun e Indo. Il re sconfitto, per ingraziarsi il Macedone vincitore e per consolarlo della perdita dell’amato cavallo Bucefalo, gli donò i cani summenzionati. Uno di questi, Perite, fu così caro al padrone, che Alessandro, similmente a quanto fece con Bucefalo, gli dedicò il nome di una città. Plinio purtroppo non descrive la morfologia di tali molossi, anche se parlando dei cani indiani, sempre nellaNaturalis Historia, riprende la leggenda, già menzionata più di quattro secoli prima da Aristotele, che li fa discendere da un incrocio tra un cane ed una tigre.
Un più concreto aiuto ad immaginarli lo fornisce lo storico greco Megastene che, inviato nel 302 a.C., da Seleuco re di Siria, in missione presso il re indiano Chandragupta, descrive la potente muscolatura, l’enorme ossatura e la testa grossa, dei cani là osservati.
L’iconografia ellenistica del periodo, purtroppo, è molto parca di raffigurazioni riguardanti il molosso e le poche sculture pervenuteci descrivono un cane che, pur con indubbie influenze molossoidi, si discosta molto, sia dai molossi mesopotamici, sia da quelli attuali. Il muso è circa i cinque decimi della lunghezza complessiva della testa, il pelo del collo è lungo come pure quello della coda, che appare frangiato; e tuttavia questi cani, nell’insieme robusti, dal petto ampio, ci ricordano molto più un incrocio tra il cane da pastore abruzzese e il molosso, che non i grandi cani dei bassorilievi assiri. Del resto, è risaputo che i pastori, sin dai tempi più remoti, hanno utilizzato il molosso per rinsanguare ed irrobustire i loro grandi cani bianchi, i canipastoralesdescritti dai latini Varrone e Columella. Tale uso era comune sino alle soglie dei nostri giorni, tanto che il mezzocorso, un incrocio tra pastore abruzzese e Cane Corso, è ancora molto apprezzato nel Meridione italiano.
Si può quindi azzardare l’ipotesi che il tempo e il caso abbiano tenacemente occultato testimonianze artistiche più esplicite ed esaurienti, atte a soddisfare la curiosità e le ricerche di tanti appassionati che rincorrono nei secoli le tracce dell’antico molosso. L’arte e la storiografia latina rafforzano questa nostra convinzione, in quanto descrivono con molta efficacia un molosso simile a quelli mesopotamici.
Il tentativo di ricostruire il percorso che ha condotto il nostro cane in Italia è cosa ardua. La nostra penisola, protesa nel Mediterraneo, è da sempre crocevia di commerci e di popoli e, è risaputo, tutte le strade portano a Roma.
Oltre ai già citati mercanti greci e fenici, non si può non ricordare la massiccia presenza di colonie greche nel nostro Meridione sin dall’VIII sec. a.C., tanto che questa terra si guadagnò il nome di Magna Grecia. Pertanto è molto probabile che nei frequenti contatti con la madre patria qualche esemplare sia giunto sulle nostre coste.
Non è da escludere, inoltre, che anche gli Etruschi fossero in possesso di cani molossoidi. Nella cosiddetta «situla della Certosa», esempio di arte etrusca della fine del VI sec. a.C., conservata al Civico Museo Archeologico di Bologna, sono decorati a sbalzo, in quattro fasce, momenti di vita degli antichi Felsinei. Le fasce che ci interessano sono due. Nella prima è rappresentato un cane al seguito di contadini che rientrano dai campi, nella seconda un cane coi cacciatori che ritornano dalla caccia. Entrambi i soggetti sono di chiara tipologia molossoide ed in special modo il secondo ci ricorda il Cane Corso.
I Romani fecero con tutta probabilità la conoscenza col molosso, utilizzato quale strumento bellico, nelle battaglie di Eraclea (280 a.C.) e di Ascoli Satriano (279 a.C.) combattute contro le schiere di Pirro, re dell’Epiro. Tuttavia, la prima fonte storica, a noi pervenuta, in cui si parla esplicitamente dei cani epirotici è di Tito Livio (59 a.C.- 17 d.C.), il quale, nelleHistoriaeracconta che il console Paolo Emilio, dopo aver sconfitto nella battaglia di Pidna (168 a.C.) Perseo re di Macedonia, al ritorno a Roma fece seguire il suo carro trionfale da almeno cento molossi dell’Epiro.
I Latini, da popolo molto pragmatico quale erano, apprezzarono immediatamente le caratteristiche di tali cani, che per il loro spirito vennero ribattezzaticanes pugnaces e cioè «combattenti».
Anche le campagne di guerra condotte contro i barbari furono per i Romani occasione di contatto con i molossi. Il già citato Plinio il Vecchio narra nellaNaturalis Historia (Libro VIII) che, quando le legioni del console Caio Mario sterminarono ai Campi Raudii, presso Vercelli, nel 101 a.C., le orde dei Cimbri, i cani di questi ultimi difesero strenuamente l’accampamento dei vinti dai soldati che vi cercavano bottino.
Sempre nello stesso libro l’Autore racconta di un re dei Garamanti (una popolazione berbera del Fezzan, Libia, sottomessa dai Romani nel 19 a.C.) che, grazie all’aiuto di duecento cani che combattevano i suoi oppositori, ritornò dall’esilio.
Le campagne di Gallia furono opportunità di incontro col molosso celta. Appiano (90-165 d.C.), storico greco trapiantato nell’Urbe, ci tramanda nelleStorie di Roma (Libro XIIDe Rebus Gallicis) che i Romani, in guerra con gli Allobrogi, ricevettero gli ambasciatori inviati dal loro re Betuito, scortati da grossi cani quali guardie del corpo.
Le legioni di Giulio Cesare, allorquando nel 55 a.C. invasero la Gran Bretagna, oltre ai feroci e selvaggi Britanni, i quali combattevano con molta coreografia, ma scarsa efficacia, a corpo nudo ed interamente dipinto, ebbero a preoccuparsi più dei loro cani.
Questi ultimi, descritti dalla taglia imponente, la bocca larga e un’aggressività indomita, suscitarono un tale rispetto nei legionari che meritarono l’appellativo dipugnaces britanniae. Questi molossi furono, con molta probabilità, usati per rinsanguare ilpugnaxromano, al fine di rafforzarne la taglia e la tempra, ma non si può escludere che anche il molosso romano abbia contribuito, a sua volta, in modo determinante alla loro selezione.
A differenza di molti altri popoli, non ci sono pervenute cronache di un massiccio impiego bellico dei cani da parte degli eserciti romani anche se negli Stratagemata, Polieno (Il sec. d. C.) scrive che i Romani addestravano quali ausiliari bellici cani specializzati nell’attacco, nella difesa e nel recare messaggi.
Si può presumere che l’alto livello tecnico e strategico raggiunto dagli ufficiali, combinato alla straordinaria efficienza e disciplina dei militi, abbiano reso superfluo il loro impiego, quantomeno nelle battaglie campali. Ciononostante, le loro qualità di combattenti non mancarono di destare l’interesse dei Romani.
Sempre Plinio il Vecchio ci tramanda nella Naturalis Historia (Libro VIII) che gli abitanti di Colafane e quelli di Gastabala, antiche città greche, usavano tenere delle coorti di cani addestrati per la guerra e, con pragmatismo, commenta: «Combattevano in prima linea senza mai rifiutarsi; costituivano truppe ausiliarie fidatissime e non abbisognavano di stipendio».
In battaglia i molossi venivano bardati con collari in cuoio rigido irti di punte accuminate e con un giaco, sempre di cuoio indurito o di maglia metallica, che aveva la funzione di proteggerli da frecce e lanci di altri oggetti contundenti. Per rendere più efficace la loro azione offensiva veniva fissato sul loro pettorale un breve spiedo e, ad altri, dettipiriferi, portatori di fuoco, si assicurava sul dorso della corazza un vaso ricolmo di sostanze resinose accese. Così acconciati, i cani erano particolarmente efficaci e temibili specie contro la cavalleria, in quanto, oltre alle ferite che procuravano con i loro strumenti di offesa, seminano panico e ustioni tra i cavalli.
Anche se non impiegati in battaglia, l’esercito romano si servì dei cani quali ausiliari. Si può affermare, con un elevato grado di attendibilità, che i molossi utilizzati fossero essenzialmente di due tipi, che riproducevano con un certo parallelismo quelli raffigurati nei bassorilievi assiri: il pesante ed il leggero.
Il primo, imponente ma scarsamente dinamico, era il guardiano per eccellenza delle fortificazioni e deicastra; il secondo, dalla muscolatura asciutta e nevrile, era il fido compagno dei militi nell’inseguimento del nemico e nella caccia. Ambedue hanno dato un apporto fondamentale alla formazione delle moderne razze molossoidi europee. Molti studiosi ritengono infatti che questi cani, incrociatisi con cani autoctoni, e sottoposti ad una selezione che teneva conto di funzioni e condizioni ambientali diverse, abbiano originato nel corso dei secoli il rottweiler e il bullenbeisser in Germania, il San Bernardo ed i grandi bovari in Svizzera, il dogue de Bordeaux in Francia, il perro da presa in Spagna, il mastiff in Gran Bretagna.
Come per i Greci, che immolavano cani ad Artemide, dea della caccia, ad Ermes, messaggero degli dèi e ad Ares, dio della guerra (ai primi due era sacro il cane, al terzo il lupo), anche per i Romani i cani facevano parte dei riti di culto.
Il 15 febbraio di ogni anno si tenevano i ludi lupercali, feste di purificazione in onore dell’antico dio latino Luperco, dapprima identificato col lupo sacro a Marte (Ares per i Greci) e poi con Fauno, il benefico dio italico protettore dei boschi, dei campi e delle greggi. Nella grotta naturale alle pendici del Monte Palatino, che costituiva il santuario del dio, venivano sacrificati dei cani, al fine di ingraziarsi quest’ultimo perché tenesse lontano i lupi dal bestiame.
Pelli di cane erano usate per ricoprire i Lari, spiriti benigni di origine etrusca, che, rappresentati in forma di adolescenti, venivano posti in coppia ai lati del focolare, al fine di vegliare sulle fortune della casa e di proteggere la famiglia. Ai cani, inoltre, i Romani, come i Greci, affidavano la custodia dei templi.
Genericamente i Latini dividevano le tipologie canine in base alle loro funzioni ed attitudini. Vi erano così ivenatici, adibiti alla caccia, ipastorales, impiegati per sorvegliare greggi e mandrie ed ivillatici, utilizzati per la guardia di ville e proprietà.
Categorie molto ampie che, a parte qualche ulteriore sottoclassificazione, quale iceleres, cioè gli inseguitori della selvaggina, ed i gia citatipugnaces, non permettono di discernere delle vere e proprie razze, le quali continuano invece ad essere distinte in base al luogo di origine geografica.
Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) non sfugge a questa usanza e infatti, nelDe re rustica (Libro II), parla di cani epirotici, laconici, salentini, ecc… Inoltre, parlando dei cani bovari scrive che, al fine di evitare che essi siano feriti dalle fiere, si fanno loro indossare dei collari, detti melli, costituiti da una striscia di duro cuoio dalla quale spuntano dei chiodi che, ribattuti all’interno, sono a loro volta ricoperti di morbida pelle. Tali collari sono molto simili a quelli ancor oggi utilizzati per i Cani Corsi.
Il grande poeta latino Publio Virgilio Marone (70- 19 a.C.) accenna a una descrizione morfologica del molossus: «testa enorme, orecchie pendenti, robusta ossatura, mantello scuro, zampe grosse ed unghie forti». NelleGeorgiche(Libro III) si sofferma sulla combinazione di razze ottimali al fine di un’efficace guardia della proprietà: «Non sia per i cani l’ultimo pensiero — ma insieme veloci cuccioli di Sparta pasci di pingue siero e il feroce molosso — con tale guardia non dovrai temere il ladro notturno né gli assalti dei lupi né alle spalle libero ladrone indomito».
Ma è Lucio Iunio Moderato Columella (I sec. d.C.) che ci tramanda la più viva testimonianza del molosso dell’era classica. Scrive infatti nelDe re rustica «Il cane guardiano deve essere nero, poiché di giorno la sua figura intimorisce maggiormente il maleintenzionato; e quando questi arrivasse di notte, simile alle tenebre e confuso con queste, potra aggredirlo senza essere visto. La testa è così grande che sembra la parte più imponente del corpo, le orecchie cadenti pendono in avanti, gli occhi neri o grigio chiaro sono penetranti, il petto ampio e villoso, le spalle larghe, gli arti potenti, dita e unghie forti, è preferibile abbia una costruzione compatta, piuttosto che tozza o lunga. Il carattere non deve essere né troppo mite, né riguardoso, né mordace… È sufficiente siano duri e non festosi… Al fine di una coscienziosa guardia devono essere, non solo vigili e temerari, ma soprattutto costanti e cauti… Svolgeranno bene il loro compito se, avvertendo l’odore dell’intruso, con astuzia, prima lo spaventeranno con il latrato e poi lo attaccheranno con assiduità se questi si fa avanti. La prima qualità è infatti quella di non lasciarsi sorprendere, la seconda quella di reagire con coraggio e tenacia se provocati». Oltre alla dettagliata descrizione morfologica, Columella si sofferma sulle doti caratteriali, che certamente non sono estranee all’appassionato del Cane Corso.
Un toccante esempio dell’importanza che la civiltà latina dava all’efficacia dei cani da guardia come protettori della persona e della proprietà ci viene dagli scavi archeologici di Pompei, in cui la coltre di cenere che copre la città in seguito all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ha preservato incomparabilmente nel tempo la drammatica dinamica della catastrofe. Tra i tanti reperti vi è quello del corpo di un grosso cane steso, a protezione, su quello di un bambino. La loro storia è raccontata dalle incisioni sul collare dell’animale. Il cane, di nome Delta, aveva salvato la vita del padroncino, Severino, in ben tre occasioni. Nella prima, lo aveva tratto in salvo allorquando rischiava d’annegare; nella seconda aveva sventato un tentativo di rapimento da parte di quattro malfattori; nella terza lo aveva difeso dall’attacco di un lupo mentre si stavano recando ad Ercolano in pellegrinaggio al tempio di Diana. Mentre i lapilli del vulcano stavano coprendo la città, Delta, ancora una volta stava cercando di salvare la vita di Severino in un eroico quanto vano tentativo di onorare il suo ruolo di protettore.
Anche il poeta greco Oppiano di Siria (III sec. d.C.) nelCynegetikon(Libro I) ci fornisce utili indicazioni. Infatti, come altri autori, distingue le razze sulla base della provenienza geografica (molossi, celtici, iberici, ecc…), tuttavia, dopo aver descritto un cane di grande taglia, dalla testa piatta, sopracciglia unite e labbra pendenti, si raccomanda di preservare nella selezione le moli più imponenti dall’incrocio con cani meno prestanti. Quest’ultimo suggerimento non può non essere apprezzato dagli allevatori di molossoidi, che ben sanno come le loro razze tendono sempre, in mancanza di selezione accurata, a tornare al normotipo, vale a dire al tipo medio di cane con caratteristiche lupoidi, da cui discendono. II che ci fa supporre che gli antichi, nonostante gli scarsi accenni alle descrizioni morfologiche delle diverse razze, fossero ben consci dei criteri di selezione zootecnica necessari al fine di preservare le loro caratteristiche morfo-funzionali.
L’iconografia romana è parca di raffigurazioni e tuttavia, coniugata alle testimonianze scritte, ben ci aiuta ad immaginare il canis pugnax. In un sarcofago romano del II sec. d.C., conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze, sono scolpiti a bassorilievo dei molossi che nel tipo ricordano molto da vicino il Cane Corso. Cani asciutti, privi di plichettature e lassità della pelle, muscolatura lunga e nevrile, mascelle larghe, occhi ben distanziati, petto ampio, solo la taglia sembra essere notevolmente inferiore a quella del Cane Corso.
Nella Villa romana del Casale, sita nelle vicinanze di Piazza Armerina (EN) e fatta costruire dall’imperatore Massimiano Erculio a cavallo del III e IV sec. d.C., si può ammirare, nella stanza comunemente chiamata della «piccola caccia», uno stupendo mosaico che raffigura momenti venatori svoltisi probabilmente nelle vicinanze della villa. In un particolare descrivente un cinghiale ferito a morte da un cacciatore armato di picca, è inserito un bellissimo molosso fulvo pronto ad avventarsi sulla fiera. La taglia è maggiore di quella dei cani degli Uffizi, ma i tratti somatici sono molto simili; in sintesi, un cane di taglia me- dio-grande, dalla muscolatura molto ben sviluppata, che gli conferisce un aspetto solido, compatto, privo di ogni pesantezza.
Se l’iconografia sembra celebrare soprattutto il molosso nella sua conformazione più leggera, simile all’attuale Cane Corso, è doveroso precisare che la storiografia comprova l’esistenza di un tipo più pesante, rassomigliante all’odierno mastino napoletano. Quando Oppiano di Siria parla di sopracciglia unite, con molta probabilità, intende descrivere le rughe che la pelle lassa forma sulla testa e Columella precisa che ha poca importanza se i cani da guardia sono di corporatura pesante e poco veloci, in quanto devono svolgere la loro mansione camminando vicino alla casa e non lontano e di corsa, e aggiunge che le loro articolazioni presentano spesse callosità. Caratteristiche queste, che ben si addicono a un cane simile all’attuale mastino napoletano. La ragione per cui quest’ultimo è raramente rappresentato nell’iconografia, è forse dovuta al fatto che il tipo più leggero era preferito per la caccia alla selvaggina pericolosa. È infatti la mischia finale, l’epilogo cruento che questa pratica comporta, che esalta lo spirito umano e che ha portato a celebrare la scena in una lunghissima serie di rappresentazioni artistiche.
Oltre all’impiego venatorio e all’utilizzo per la guardia e la difesa della proprietà, il molosso a Roma era protagonista apprezzato dei giochi circensi. Levenationeserano quel ramo dei giochi gladiatorii in cui venivano ricostruite artificialmente scene di caccia cruente. Gli scenari e i temi erano tanto vari quanto fantasiosi e prevedevano il confronto tra gladiatori e fiere e tra belva e belva. Gli animali erano fatti confluire a Roma da tutto l’Impero e accadeva così di vedere specie provenienti da climi freddi confrontarsi con bestie equatoriali: tigri con orsi, lupi con pantere, ecc. Il già citato Strabone, ad esempio, ci ricorda che per affrontare un leone occorrono ben quattro molossi.
Quinto Aurelio Simmaco (340-402 d.C.), celebre uomo politico romano, nelle sueLetterescrive al fratello Flaviano che al Colosseo, cani importati di recente dall’Irlanda, sono stati molto applauditi per il valore dimostrato contro i leoni. L’importanza e lo spettacolo procurato daipugnacesdoveva essere notevole, tanto che esisteva un ufficiale, ilMagister et procurator canis, incaricato di sovrintendere alla selezione e allevamento degli esemplari impiegati nei ludi circensi.
Con la caduta dell’Impero Romano e il conseguente imbarbarimento sociale, economico e letterario, anche le testimonianze sul molosso si diluiscono e si affievoliscono sino quasi a scomparire.
Il nostro cane ricomparirà protagonista qualche secolo più tardi, quando i lumi dell’Umanesimo prima, e del Rinascimento poi, ridaranno luce a un cammino cominciato con la storia dell’uomo.
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