In Sicilia la passione per il Cane Corso è di antica tradizione ed è tuttora molto viva. La razza, pur avendo in comune con il resto del Meridione molti degli impieghi, è stata adibita per alcune funzioni del tutto singolari e tipiche dell’isola, le cui radici affondano nei secoli, a volte nei millenni. Giovanni Tumminelli, fondatore della Delegazione Sicilia della Società Amatori Cane Corso, con passione, caparbietà, fiuto da ottimo ricercatore, ha speso anni ed energie per rintracciare e catalogare tradizioni e costumi che il tempo aveva offuscato. A lui siamo totalmente debitori per quanto scritto in questo capitolo e per i rari esemplari e linee di sangue della razza rintracciati nell’isola, con la collaborazione di altri corsisti.
La presenza in Sicilia del Cane Corso è testimoniata da innumerevoli e spesso curiose tracce. Un Corso rampante costituisce il blasone dell’antica famiglia dei baroni Corso, risalente al 1500.
Detti e proverbi di Trinacria testimoniano il ruolo che la razza aveva maturato nella simbologia e nell’immaginario popolare nel corso dei secoli.A cani corsi nun ci diri’ngnirri, riporta M. Emma Alaimo nel suoProverbi Siciliani edito da Giunti, vale a dire «al Cane Corso non dire prendilo» e cioè non aizzare chi per natura è propenso all’ira. Un antico detto ennese dice:Oggi haiu vistu lu munni alla riviersu ca lu liebru assicutava u cani corsu «oggi ho visto il mondo alla rovescia, ché la lepre inseguiva il Cane Corso».
Nel libroI Beati Paoli vi è una canzone cantata ai detenuti dai propri compagni di strada:Morsi cu morsi, e cu tamava persi, si finnìerun li spassi e li guai, la bedda libertà come si persi, si li manciarru li cani corsi. Vale a dire: «Sei morto alla vita, e hai perso chi t’amava, così finirono i divertimenti e la vita scellerata, come hai perso la bella libertà? Se la sono mangiata i Cani Corsil».
E dell’impiego della razza quale ausiliare di guardie e poliziotti ci parla Danilo Mainardi sul «Corriere della Sera» del 1° giugno 1989: Leonardo Sciascia infatti ne aveva scritto inOcchio di Capra, il singolare dizionarietto di Racalmuto e dintorni.
«Leggendo la vocebarruggieddru, che significa “capo degli sbirri”, avevo così imparato che, con decreto 30 novembre 1750, Carlo III aveva proibito, appunto agli sbirri, l’uso dei Cani Corsi per l’inseguimento dei rei.
Anche da caccia all’uomo era dunque, almeno in altri secoli e in Sicilia quel cane… un terribile, indomabile molosso… un animale ricco di fascino e di storia.»
La fama e le attitudini della razza ben si evincono anche dalNuovo Dizionario Siciliano-Italiano (1838) edito per cura del barone Vincenzo Mortillaro. Alla voce «Cani», dopo un’esplicazione generale, elenca diverse razze. Al punto V scrive: «Cani Corsu, Can Corsico o Corso», aggiungendo per similitudine: «Lassarisi jiri cum un Cani Corsu», «avventarsi gagliardamente, gittarsi sopra con violenza».
In minore considerazione la razza è tenuta invece dal Mina Palumbo che, nel suo Mammiferi di Sicilia (1868), distingue:
«Canis molossus. Nome volgareCani Corsu inglisi, cane di forme molto robuste, la sua testa molto grossa, la mascella inferiore più sporgente sono caratteristiche di questa specie. È comune in Inghilterra, ne ho veduto in Palermo belli tipi provenienti da quella località. Blasone dei baroni Corso, antica famiglia siciliana, con Cane Corso rampante d’argento in campo azzurro.
Canis mastivus. Nome volgare Cani Corsu; testa ottusa, e corta, muso molto grosso, orecchie all’apice pendenti, peluria cinericcia, fasciata obliquamente di nero, poca intelligenza. Catania, Petralia, Sottana, Castelbuono, Palermo».
Se ne può dedurre che l’esterofilia in Italia ha radici antiche.
Oggi il Cane Corso, grazie all’impegno della Delegazione Sicilia della S.A.C.C., sta vivendo nell’isola con rinnovata vitalità ed interesse.
Seguire l’impiego del Cane Corso vuol dire seguirlo nelle più svariate attività dell’uomo e di conseguenza anche in quelle che oggi possiamo deprecare, ma che, in passato, costituivano parte delle abitudini della gente del Mezzogiorno, il loro costume, la loro cultura, la loro morale.
Pertanto l’impiego della razza nel combattimento «sportivo» rappresentava il risultato di una certa mentalità e rispecchiava usi e costumi che la gente riteneva, per l’epoca, atti a soddisfare i propri piaceri e aderenti al modo di concepire parte della destinazione del proprio tempo libero.
La nostra ricerca ci costringe a queste rapide incursioni storiche perché fanno parte del cammino dell’uomo, sono anelli di una catena che l’uomo stesso avvolge o spezza sulla strada del suo progresso e il cane gli è comunque compagno nelle buone o cattive azioni.
La tradizione del combattimento è stata coltivata con passione viscerale in certe aree della Sicilia, evolvendosi nei secoli con peculiarità del tutto singolari. Anzitutto, è bene chiarire, il combattimento tra cani nell’isola non aveva la caratterizzazione violenta e crudele che purtroppo hanno i combattimenti che si organizzavano clandestinamente, per scommessa, e che finivano col procurare ai cani gravi lesioni se non la morte.
I cani impiegati erano esclusivamente Corsi, animali preziosi per il proprietario, che se ne serviva come insostituibile ausiliare per il proprio lavoro e non i meticci, spesso impropriamente chiamati Corsi, che deprecabili individui utilizzano in clandestinità ancora oggi.
Lo scopo del combattimento «sportivo» (sciarra — bisticcio) era quello di provare la forza atletica e caratteriale dei propri cani, che dovevano cercare di mettere l’avversario in condizione d’inferiorità, di dominarlo.
Al fine di preservare i contendenti da indesiderate ferite nelle parti vitali, prima del combattimento, veniva loro fatto indossare un robusto e largo collare di cuoio, rifinito all’esterno con una lamina metallica su cui era inciso il nome del cane.
Lo svolgimento del combattimento avveniva con modalità analoghe a quelle già descritte in precedenza, in un‘arena improvvisata delimitata dagli spettatori. Alla fine dellasciarrail proprietario del campione gli appendeva al collare lacofficedda, un piccolo contenitore riccamente decorato il cui nome deriva da coffa, il tipico sacco utilizzato per dare la biada ai cavalli durante le soste, ripiena di sigari, affinché il cane li offrisse ai presenti durante il giro d’onore.
Talvolta, per non intimorire i tifosi, si faceva indossare al cane dasciarraanchelu mussali, una museruola in cuoio finemente lavorato.
Ancora oggi, nella zona di Vittoria si ricordano i nomi dei campioni del passato, remoto e pro: come i Furiusu, i Barone e i Briganti di Don Turiddo Lillo e di Fraschidda, al secolo Giovanni Tommasi.
Talvolta la passione per il combattimento toccava toni esasperati come testimonia un episodio accaduto negli anni Cinquanta, di cui è protagonista un Cane Corso di nome Cinquantadue, dall’anno della sua nascita. Cinquantadue era un rinomato campione dellasciarra, particolarmente dotato per doti fisiche e caratteriali, di cui il proprietario era fierissimo.
Un giorno arrivò in paese un circo equestre che, per richiamare l’attenzione e pubblicizzare lo spettacolo, faceva mostra di un leone al guinzaglio del suo domatore.
Il proprietario di Cinquantadue era talmente sicuro dell’imbattibilità del proprio cane che propose una sfida col leone. Il Corso, aizzato, non esitò ad ingaggiare battaglia e incurante delle ferite continuò a combattere sino a morire con onore sul campo.Parce sepulto!..
Nell’antichità i Romani cacciavano l’istrice per il sapore delle sue carni, che ritenevano particolarmente prelibate. Probabilmente, proprio per tale motivo, furono loro ad importare questo grosso roditore in Sicilia dalla sua terra d’origine: il Nord Africa. Attualmente l’istrice è un animale endemico della fauna italiana e, ad eccezione della Grecia, non vive in nessun altro paese d’Europa. Con una lunghezza che può raggiungere i 60 centimetri e con un peso di oltre 15 chili è il più grosso roditore del continente dopo il castoro.
In passato l’istrice è stato oggetto di una caccia assidua, che ha rischiato di causarne l’estinzione, sia perché considerato nocivo alle coltivazioni, sia per le sue carni ricercate, sia per il pregio dei suoi aculei da cui abili artigiani ricavavano monili, braccialetti, cofanetti. Oggi, protetta dalle leggi e favorita dall’abbandono delle zone collinari, la specie è in ripresa numerica tanto da essere diffusa in tutto il Meridione, arrivando sino al Molise sul versante adriatico e alla Versilia su quello tirrenico. Nella Maremma tosco-laziale esistevano veri e propri specialisti della caccia all’istrice, chiamatospinosanel dialetto locale. Ma è in Sicilia che tale caccia, di origini remote, si è evoluta e perfezionata in modo del tutto singolare. L’istrice è un animale solitario, d’abitudini notturne, e trascorre le ore del giorno poltrendo nella tana, che scava di notevoli dimensioni. Se sorpreso al di fuori di essa, questo roditore costituisce un terribile avversario che, emettendo soffi e grugniti ed inarcando sulla schiena i suoi aculei è difficilmente attaccabile da qualsiasi predatore. Inoltre, di notte, è per i cacciatori molto difficile potersi avvalere con efficacia delle armi da fuoco. Per tali motivi i cacciatori siciliani preferivano cacciarlo durante il giorno, al fine di sorprendere l’istrice addormentato nella tana. Loro insostituibile ausiliare in questa pratica venatoria erau corsiceddu, vezzeggiativo alquanto curioso per un cane di oltre sessanta centimetri al garrese e con un peso di cinquanta chili.
In Sicilia l’istrice è presente su quasi tutto il territorio: nei boschi di San Pietro, della Ficuzza, di Grammichele, sul promontorio di San Vito lo Capo e alle pendici dell’Etna.
In particolare il bosco di San Pietro, nei pressi di Caltagirone, era meta di molti appassionati dell’area etnea e del catanese che si dedicavano a questo tipo di caccia. I cani venivano scelti dal carattere particolarmente forte, non eccessivi nella taglia e dall’ottimo fiuto. La battuta di caccia iniziava allorquandou corsiceddu fiutava la traccia dell’istrice. A tale scopo, per favorire il cane, i cacciatori cercavano di indirizzarlo sui sentieri che il roditore traccia tra la vegetazione durante le sue passeggiate notturne. Spesso erano gli aculei lasciati sul terreno a tradirne la vicinanza. Gli antichi credevano che l’istrice scagliasse gli aculei contro il nemico a mo’ di freccia, mentre il fenomeno è dovuto al periodico rinnovo del manto che, come negli altri mammiferi, è soggetto a muta. Identificata la traccia, cacciatore e cane la seguivano in religioso silenzio al fine di sorprendere il selvatico intorpidito dal sonno nella tana. Aizzato dal padrone,u corsiceddu entrava nell’antro e, incurante del dolore procuratogli dagli aculei, afferrava con impeto l’istrice stringendolo con tutta la potenza della sua proverbiale morsa. Il cacciatore a quel punto, afferrato il cane per la coda, lo tirava fuori dalla tana assieme alla preda.
Per favorire tale operazione, abitualmente ai Corsi adibiti a tale tipo di caccia la coda veniva amputata all’ottava vertebra e non, come di consueto, alla quarta. Ciò consentiva al cacciatore di avvalersi di un appiglio migliore.
Questa pratica venatoria aveva, tuttavia, il difetto di procurare gravi lesioni agli occhi del cane che spesso, infettandosi, portavano alla cecità. Ancora una volta la natura forte e generosa del Cane Corso lo portava ad onorare il suo vincolo di fedeltà e dedizione all’uomo a scapito del dolore e della sua stessa integrità fisica.
Leggi anche:
Dopo la caduta dell’Impero Romano, la nuova società feudale romano-germanica, che diede vita alla cultura medioevale, cambiò, assieme alla geografia economico-sociale d’Europa, anche il nome dell’anticopugnaxromano. Si cominciò infatti a chiamare Cane Corso il molosso italico, come testimonia una vasta bibliografia, che spazia in un arco temporale che dal Medioevo ci porta ai nostri giorni.
L’origine del nome è controversa e le varie ipotesi sull’etimo sono già state trattate. È tuttavia doveroso sottolineare come, assieme al termine Corso, anche quelli di mastino, dogo, alano, molosso, fossero indistintamente utilizzati per indicare i cani molossoidi in genere. L’origine di questa confusione terminologica è probabilmente da ricercarsi nella amalgama e nella sovrapposizione di vari ceppi linguistici, dovuti alle invasioni barbariche, con la conseguente nascita delle lingue romanze nell’Europa latina.
Ritroviamo così il termine mastino nel francesemâtin, dove sembra indicare più il cane da pastore che il molosso, che invece l’inglese chiamamastiff.
Dogo, nel francese diventadoguee nel tedescodogge(Deutsche Dogge è tuttora il nome tedesco dell’alano), termini che si riferiscono certamente al molosso, derivando dall’inglesedogche anticamente indicava una possente razza di cani, in quanto, in inglese antico, genericamente il cane erahund(hound).
Preferiamo non approfondire l’aspetto di ricerca dell’origine etimologica di tali termini, certamente interessante e controversa quanto quella dell’etimo Corso, ma sottolineare invece che, oltre ai diversi modi summenzionati di indicare il molosso, le invasioni barbariche portarono nuovi ceppi molossoidi che sicuramente contribuirono a rinsanguare ed a differenziare ulteriormente gli antichicanes pugnaces romani. La storiografia non ci fornisce purtroppo la chiave di lettura per identificare con l’uno o l’altro termine una precisa tipologia di molosso.
Dei cani si cantano le lodi, le virtù, la prestanza fisica, ma le descrizioni morfologiche sono troppo rare e generiche per permettere di distinguere, con moderni parametri cinotecnici, l’una o l’altra razza. Del resto, come avremo modo di approfondire, il concetto di razza è stato, sino alla soglia dei nostri giorni, molto generico e per lo più serviva ad indicare le caratteristiche morfo-funzionali ottimali per un determinato impiego del cane.
L’utilizzo prevalente del Cane Corso fu nella caccia alla grossa selvaggina, come innumerevoli testimonianze iconografiche e storiografiche medioevali e rinascimentali ci tramandano. Una miniatura di Giovannino de’ Grassi, risalente al 1390 ca., intitolataCacia di porco cingiate, illustra una muta di sette cani che azzannano un cinghiale ormai esanime. Tre di questi hanno una testa con caratteristiche molossoidi molto marcate: il muso è cortissimo, il cranio largo. Tuttavia il corpo presenta arti allungati, ventre leggermente retratto, struttura asciutta e nevrile tipica dei cani atti ad inseguire la preda (un’altra miniatura del de’ Grassi descrive in modo più esplicito un molosso prognato con le stesse caratteristiche). Il resto della muta è composto da due levrieri e da due esemplari con connotazioni molossoidi più lievi, probabilmente frutto di un incrocio tra molosso e levriero molto comune all’epoca, chiamatoleporarius magnus.
Incredibilmente simili al Cane Corso sono, invece, i molossi raffigurati in un affresco di un palazzo patrizio veronese risalente al 1400 ca., anch’essi impegnati nella caccia al cinghiale. Il letterato e umanista Giulio Cesare Scaligero (1484-1558), nella sua traduzione commentata in latino dellaStoria degli animali di Aristotele, parla di cani di grossa taglia, capaci di affrontare tori e cinghiali, chiamati alani, Corsi, dogas. Li descrive, purtroppo, senza distinguere l’uno dall’altro, dalle dimensioni di vitelli di tre mesi, con grosse fauci ed arti bovini.
Non accenna alla morfologia neppure Teofilo Folengo (1491-1544) che, nel manoscritto in latino maccheronico dettoBaldus, si diletta a descrivere alcuni tipi di caccia in cui è impiegato il Cane Corso: «(…) Come spesso avviene, allorché l’orso graffiante viene circondato da i Cani Corsi e dalle uncinate lance degli uomini (…) Non altrimenti ruggisce il leone, ferito dal cacciatore quando il dente e l’unghia inutilmente affonda nei Cani Corsi o nei molossi (…)».
Dell’impiego venatorio del Corso ci è lasciata traccia anche in una lettera che Federico Gonzaga, duca di Mantova, indirizzò nel 1530 al re di Polonia che gliene chiedeva alcuni esemplari: «lo haveva bene alcuni cani corsi, ma in le cacce che si son fatte in questi giorni mi sono stati morti dalli cingiari».
Il naturalista svizzero Konrad von Gesner (1516 — 1565) nella suaHistoria Animalium, edita in latino, sezioneDe Quadrupedibus, dedica un capitolo alDe Cane Venatico Robusto, Adversus magnas aut fortes Feras in cui descrive, con inusuale dettaglio per l’epoca, il Cane Corso: «Alberto (si riferisce ad Alberto Magno,1193-1280, filosofo e teologo domenicano che tradusse le opere di Aristotele) traduce “molosso” con “mastino”: parole in uso presso gli ita- liani e gli inglesi, ma di cui non conosco l’origine, so solo che mastino racchiude la parola Massimo. I tedeschi lo chiamanoRüden(rozzo), forse proprio perché è un cane rude. (…) in Corsica ci sono molti cani feroci; intrepidi nell’inseguimento e nella presa di ogni tipo di animali. Si devono scegliere quelli forniti di muso impressionante, di testa molto larga, con il labbro superiore pendente sull’inferiore, con occhi rosseggianti, con narici dilatate e che sembrino emettere vapori di fuoco, con denti aguzzi, con poderoso collo, con petto largo; avanzino superbi come leoni, con grandi piedi e con sproporzionate dita, le unghie siano dure e ricurve in modo che meglio aderiscano al suolo e abbattano con più violenza la preda. Con questo tipo di cani i cacciatori possono con facilità raggiungere e catturare la selvaggina. In Italia e soprattutto a Roma si dice che ci si serve dei Cani Corsi (Curshund) contro cinghiali e tori selvatici. (…) Il molosso è di grande taglia e gran morditore, come il Cane Corso. Ritengo che lo si consideri morditore, non perché azzanni senza ragione, ma perché ha una presa energica e a stento molla il morso inflitto alle fiere. Del resto, io so che il Cane Corso, quando ha ficcato le zanne nel cinghiale o nel toro selvatico, non può essere separato dalla preda senza l’intervento deciso del cacciatore sulle mandibole serrate.»
Riteniamo che il brano sia di grande interesse, in quanto da esso possono essere ricavati alcuni indizi utili alla nostra ricerca. Anzitutto la distinzione, già presente nel Folengo, tra molosso o mastino e Cane Corso: la morfologia è simile, tuttavia il Corso è adatto non solo ad abbattere la preda, ma anche ad inseguirla. In secondo luogo ci conferma il significato di Cane Corso come cane robusto.
Anche se il Gesner traduce in latino Cane Corso conCanum ex Corsica o Corsicanum, lasciandosi ingannare dal nome, titola il capitoloDe Cane Venatico Robusto, cioè «del cane da caccia robusto», utilizzato non in Corsica, ma in Italia, specie a Roma.
Tito Giovanni Scandiano nel suo Poema della Caccia (1556), ci fornisce altre utili indicazioni sull’utilizzo del nostro cane: «… altri, detti Corsi, per assalire, mordere e tener cinghiali, orsi e lupi». Tuttavia la più efficace ed affascinante celebrazione poetica del Cane Corso è quella fatta da Erasmo da Valvasone (1523-1593) nel suo poemaLa Caccia:
Canto Primo
«Il Corso ha gran possanza, ardito assale
La fera, et la ritien: poiché l’ha presa,
Sciorre il dente non sa: ma poco vale
Per raggiungerla poi, che in fuga è stesa:
Non ha del ciel sortita al nome eguale
Prestezza il corpo suo, che troppo pesa:
Et la virtù diffusa in si gran seno Mal lo riempie e ne vien tosto meno».
consigliando quindi un tipo costituzionale adatto a cacciare l’orso, il lupo o il cinghiale lo vuole:
Canto Secondo
«Simile al veltro in tutti i membri suoi
O sia corso, od alano, o forse uscito
Fuor dell’Epiro, o de la gran Bretagna,
Come il veliro sia destro, et sia spedito,
Ma di persona più gagliarda et magna:
Sia grosso, ma non grave, od impedito
Da tanta mole, che la lena fragna:
Abondi di grand’ossa, et di gran nerbo,
Et sia facile a l’ira, aspro et superbo.»
ricerca perciò un tipo con morfologia più leggera rispetto a quella del Canto Primo, esigenza dettata dalla necessità di avere un cane più funzionale, certamente molto simile al Cane Corso attuale.
Un’altra testimonianza poetica di notevole interesse è quella che Giambattista Marino (1569-1625) fa nel suo idillio dedicato al mito di Atteone, incluso nella raccolta LaSampogna. Nel descrivere la caccia ad Atteone, cacciatore così abile da esser tramutato per vendetta in cervo da Artemide, dea della caccia, e quindi inseguito e sbranato dai suoi stessi cani, il Marino ordina questi ultimi in base alle loro doti di inseguitori:
«I veltri iberi e franchi sono i primi alla pesta.
Più lontani e più lenti vengon gli alani e i corsi.
Seguono i medi e i persi temerari e ardenti…»
Gli alani e i Corsi sono superati in velocità solamente dai levrieri e seguiti a ruota da medi e persi, cani difficili da identificare, ma che potrebbero essere proprio gli antichi molossi orientali.
La splendida fontana dedicata al mito di Atteone e Diana, ubicata nel parco della Reggia di Caserta e risalente alla fine del Settecento, tuttora coniuga straordinariamente poesia e scultura: nella pietra sono immortalati cani che vanno dal levriero, al Corso, al più pesante mastino napoletano. Certamente le doti di versatilità ed ecletticità del Cane Corso contribuirono non poco al successo che la razza ebbe sino a pochi decenni fa. La razza era così presente nella vita di tutti i giorni da entrare nel linguaggio comune e addirittura essere utilizzata come termine di paragone.
Niccolò Machiavelli (1469-1527), in un poemetto incompiuto,L’Asino, include la razza nel paesaggio poetico:
«Vidi una volpe maligna e ‘mportuna
che non truova ancor rete che la pigli;
e un Can corso abbaiar alla luna».
Il Corso compare anche nelPoemetto in onore del Cardinale Scipione Borghese (1628), scritto per celebrare la villa appena terminata in Roma:
«Qui li ciechi lepier e corsi
Can, di ferocità rabbiosa armati
Affrontar lupi, apri, leoni et orsi
Co’ i cacciator suoi vedrete entrati».
Presso le corti rinascimentali la razza doveva essere molto apprezzata e utilizzata, non solo per la caccia alla grande selvaggina, ma anche per i combattimenti contro altri cani od altri animali quali tori, orsi e grandi felini. Tali combattimenti non erano esclusivamente prerogativa dell’aristocrazia di corte, ma anzi erano spesso utilizzati per grandi spettacoli di piazza. Il coinvolgimento del popolo e l’atmosfera eccitata che si veniva a creare è magnificamente raffigurata nel quadro intitolatoCaccia ai tori in Piazza San Marco(1750) di Antonio Canal, detto il Canaletto, e G Battista Cimaroli.
I tori sono resi inoffensivi al pubblico perché trattenuti da lunghe funi, tuttavia conservano tutta la loro capacità di offesa nei confronti dei cani che, eccitati dai canettieri e dalle urla della folla, si avventano al musello e all’orecchio dei bovini. Impiego ben diverso è quello che, specie durante il Medioevo e Rinascimento, si fece del molosso quale cane da guardia alle costruzioni di difesa e quale strumento bellico. Sino all’avvento delle armi da fuoco le potenzialità dei cani soldati furono apprezzate, specie contro la cavalleria. Un magnifico esempio di bardatura da guerra per cani è quella esposta al Museo delle armature di Salisburgo.
Il Cane Corso fu sempre all’altezza dei vari compiti che l’uomo gli affidò nel corso della storia, tanto che il suo nome divenne sinonimo di coraggio e determinazione. Si legge infatti nelDizionario della lingua italiana di Nicolo Tommaseo (1802-1877): «Can corso, uomo di aspetto ed attitudine fiera».
L’efficacia e la solidità della sua presa erano così proverbiali che Giovanni Verga (1840-1922) usa nel suo celebre romanzoI Malavoglia il detto: «… morde peggio di un Cane Corso…».
Bartolomeo Pinelli (1781-1835), celebre incisore e scultore romano, amava includere il Cane Corso nelle sue opere. Bellissimo è l’autoritratto con un tipico esemplare di Corso sdraiato ai suoi piedi.
Tuttavia fu nel Regno delle Due Sicilie che la razza conobbe i suoi momenti di massimo splendore. I Borboni di Napoli furono grandi estimatori di questi cani, tanto che ad essi si ispirarono per i loro soggetti molti degli artisti che frequentarono la corte partenopea. Ma fu con le genti del Regno di Napoli che nei secoli si strinse un legame inscindibile col Cane Corso, tanto da essere parte integrante della loro economia, dei loro costumi e persino delle loro tradizioni, proverbi e leggende.
NelVocabolario Siciliano-Italiano per la interpretazione dei sogni ad uso dei Giocatori del Regio Lotto al Cane Corso è abbinato il numero ventidue e statuine riproducenti la razza sono parte dei più suggestivi e famosi presepi partenopei. Il legame tra il Corso e il nostro Meridione è tale che l’orizzonte storico sfuma in un amalgama di passato e presente, di vissuto e quotidianità così ampio e interessante da meritare di essere trattato in una apposita sezione di questo libro.
Leggi anche: