Il Cane Corso nella Masseria

Tratto da “Il Cane Corso – Origini e prospettive del Molosso Italico” (Editore Mursia 1996) per gentile concessione degli autori Ferdinando Casolino e Stefano Gandolfi (soci fondatori della Società Italiana Cane Corso).

Parlare degli impieghi tradizionali del Cane Corso nell’arcaico Meridione rurale significa ricostruire un contesto socio-economico ormai scomparso, al centro del quale vi era la masseria, erede diretta dellacurtisd’epoca tardo-romana e vero e proprio fulcro dell’attività economica dell’epoca. Come lacurtisromana, la masseria rispondeva innanzitutto ad esigenze difensive.

Infatti, se ancora funesto è il ricordo delle scorrerie saracene dal mare, non meno lo è quello dei saccheggi da parte di eserciti stranieri, mercenari, briganti e soldataglia in genere, per non parlare poi delle continue lotte tra città e fazioni rivali.

Per tali motivi la masseria generalmente si sviluppa attorno ad opere di fortificazione preesistenti, quali castelli, casali fortificati e torri d’avvistamento, attorno alle quali, in epoche successive, l’abitato si allargava ordinatamente con una disposizione a rettangolo degli edifici.

Nel Meridione la tipologia delle masserie è varia e diversificata ed è solo osservando la struttura preesistente, da cui origina il complesso, che si può classificarle. Distinguiamo così masserie a castello, a torre o compatte ove attorno al piazzale si sviluppano i vari elementi. Singolari e tipiche sono poi le masserie che, nella Valle d’Itria, si presentano come un armonioso e originale insieme di trulli, riprendendo la tipica struttura architettonica della zona. Tuttavia, pur con un’ampia tipologia, tutte le masserie rispondevano solo ad esigenze funzionali ed economiche e per questo tutte sono accomunate da una razionale disposizione degli edifici. Al centro vi era un cortile (curtis) cintato e delimitato dai diversi fabbricati, normalmente destinato all’allevamento dei maiali e dei gallinacei, oltre che allo svolgimento delle tipiche attività rurali.

A ridosso della corte vi era l’abitazione del proprietario e dei suoi aiutanti (domus) e la cappella, entrambe particolarmente curate nella forma architettonica. Più esternamente vi era un insieme di altri locali (casalinum) rispondenti a molteplici funzioni: cantina, frantoio, mulino, forno, ecc… Contiguo alcasalinumvi era la casa del massaro e dei contadini (massaricia), più all’esterno la «cafoneria», destinata ai lavoratori stagionali e poi via via le stalle, l’ovile (jazzo), l’aia, la colombaia, l’orto, il vigneto, l’agrumeto, l’oliveto.

Fuori del recinto, i campi coltivati, prevalentemente a cereali, e i pascoli per bovini e equini allevati bradi o semibradi.

In sintesi, ne risultava un’entità autosufficiente, perfettamente rispondente alle necessità  economico-rurali dell’epoca: un piccolo villaggio fortificato, organizzato ed autonomo, attorno al quale gravitavano attività commerciali, agricole e pastorali.

Nel Meridione la masseria testimonia passato e presente ed è in questo contesto che il Cane Corso s’inseriva come valido ed efficace ausiliare nello svolgimento delle mansioni imposte dal duro lavoro e dagli usi di vita dell’epoca.

Durante il giorno la masseria era centro di attività e commerci, un continuo via vai di macellai che acquistavano il bestiame vivo; di commercianti che trattano prodotti agricoli, l’acquisizione di formaggi e latticini, l’ammasso del latte per i posti di raccolta e ogni altro genere di prodotto risultante dall’attività massale; di carrettieri che assicuravano i collegamenti ed il trasporto delle granaglie ed ogni altra mercanzia e materiale. Tutti questi operatori, abituali frequentatori della masseria, erano soliti farsi accompagnare e proteggere da Cani Corsi, che in genere tenevano legati ai loro calessi o carri. Per evitare che i Corsi, adibiti dal massaro alla guardia di magazzini e fabbricati, oltre che del bestiame a stabulazione permanente, venissero a inopportuno contatto con persone e cani estranei si usava tenerli legati a catena. Di giorno, quindi, il Corso diveniva un vigile e incorruttibile cane da catena. Affinché i loro cani potessero operare al meglio ed il più efficacemente possibile, i massari hanno perfezionato nel tempo un originale e funzionale metodo. Al cane veniva messo un robusto collare di cuoio dotato di un anello girevole (volano) a cui veniva agganciata la catena, assicurata a sua volta ad una carrucola che scorreva su un solido cavo aereo.

Tipico collare per Cane Corso con le due caratteristiche stringhe di chiusura, l'anello girevole a cui attaccare la catena e le sigle della famiglia a cui apparteneva il cane.
Tipico collare per Cane Corso con le due caratteristiche stringhe di chiusura, l’anello girevole a cui attaccare la catena e le sigle della famiglia a cui apparteneva il cane.

Tale sistema assicurava al cane una «mobilità delimitata», permettendogli di muoversi liberamente e senza l’intralcio della catena nell’area da sorvegliare Inoltre, nel caso che la guardia fosse affidata a più Corsi, si potevano delimitare le zone di sorveglianza, evitando nel contempo pericolose e cruente zuffe tra cani per il possesso delle femmine in estro o della ciotola del cibo.

Abitualmente al soggetto più forte e aggressivo si affidava la vigilanza dell’accesso alla stalla onde, nascosto dalla porta, potesse sfruttare al meglio L’effetto sorpresa. Solo i cani ormai vecchi ed i cuccioli erano lasciati in libertà, assieme ai volpini, chiamatipumacchiopumetti, alludendo al loro aspetto che ricordava un piumino. Per evitare che il collare potesse col tempo causare piaghe e traumi al cane, particolare attenzione era dedicata alla sua fattura. Si trattava di un insieme di strisce di cuoio, larghe dai 10 ai 15 centimetri, conciate particolarmente morbide all’interno e dure all’esterno, in maniera straordinariamente simile agli antichi melli romani. La chiusura del collare era assicurata da due robuste cinghie di cuoio. La sua costruzione era affidata ad esperti artigiani che ne decoravano la parte esterna con tale fantasia da produrre dei veri capolavori d’ornato, tanto che talvolta vi decoravano lo stemma di famiglia.

Il sistema delle catene aeree, inoltre, impediva che i cacciatori a piedi o a cavallo si avvicinassero troppo alla masseria coi loro cani, danneggiando le colture o importunando il bestiame e evitava, nel contempo, che occasionali viandanti fossero aggrediti.

Di notte, invece, essendo necessaria una più stretta sorveglianza, il Cane Corso, liberato dai suoi vincoli, poteva intervenire efficacemente contro chiunque profanasse il territorio a lui affidato, uomo o animale.

I predatori notturni erano sovente volpi e mustelidi (faine o donnole) e raramente lupi ed orsi. Contro di essi i cani intervenivano risolutamente mettendoli in fuga e talvolta uccidendoli. Tuttavia i nemici più pericolosi ed infidi erano i ladri dediti all’abigeato.

Gli aneddoti riguardo agli espedienti utilizzati per rendere inoffensivi i cani e trafugare il bestiame sono innumerevoli e, a volte, di radice antica, contornata di magia e superstizione. Uno tra i più curiosi racconta che il ladro si avvicinava cautamente al ricovero del bestiame, stringendo tra le mani un laccio di pelle di cane e, richiamando l’attenzione dei cani con sommesso guaire, ripeteva per tre volte la seguente filastrocca:

«cane, cagnastro,
quando c’eri tu Cristo non era nato,
Cristo nato,
cane legato»

Ad ogni filastrocca corrispondeva un nodo al laccio, al terzo nodo i cani cadevano in un sonno profondo. Il ladro era così libero di portare a termine in tutta tranquillità la sua opera, per poi togliere l’incantesimo sciogliendo i nodi. Espediente molto più efficace e sicuro era invece quello di imbrattarsi gli abiti con la secrezione di una cagna in calore al fine di rendere i cani docili ed inoffensivi. Sovente, tuttavia, queste astuzie erano inefficaci o per l’abbaiare insistente di qualche pumetto o per l’intervento di qualche cagna più smaliziata. Le conseguenze erano gravi: i cani attaccavano tenacemente, senza sosta e talvolta ci scappava addirittura il morto. Per tale motivo il Cane Corso veniva definito «combattente», senza alcun riferimento, quindi, alla barbara e riprovevole usanza del combattimento tra cani organizzato per scommessa. Certo, non si può negare, che il quotidiano contatto tra i cani della masseria e quelli dei suoi frequentatori stimolasse talvolta i proprietari a provare la superiorità dei propri cani. Uno sfottò, una battuta di troppo e il combattimento era immediatamente organizzato. I cani erano portati in un luogo neutrale, onde evitare vantaggi territoriali, e accuratamente lavati al fine di scongiurare la presenza di sostanze nocive o sgradevoli sul pelo dei contendenti. A questo punto i proprietari mettevano i cani uno di fronte all’altro e, trattenendoli a cavalcioni, li aizzavano al parossismo. Una volta liberati, i cani si azzuffavano e, alzandosi sulle zampe posteriori, petto contro petto, avvinghiandosi l’uno all’altro con le zampe anteriori in un abbraccio da lottatori, cercavano di mordere al collo e di atterrarsi a vicenda. I morsi dell’uno venivano parati dai denti dell’altro, in un susseguirsi crescente di spinte e perdite d’equilibrio e di riassetto in posizione. Lo spettacolo, raccapricciante e selvaggio, affascinava gli spettatori che, tenendosi a debita distanza, delimitavano l’arena improvvisata, mentre i proprietari continuavano a seguire da vicino i propri cani incitandoli. La scena è efficacemente riprodotta in un’incisione di Bartolomeo Pinelli. Il combattimento durava normalmente una decina di minuti e finiva col prevalere del più forte che, afferrato l’avversario al collo, lo atterrava rendendolo inoffensivo, né esso stesso poteva mollarlo serrando le mascelle in una specie di spasmo nervoso. Il proprietario gridava allora che il suo campione aveva‘mpresato (termine da cui deriva l’espressione «cane da presa»), proclamando la fine del combattimento. Per il perdente, stretto e immobilizzato dalla ferrea presa del vincitore, non vi era più alcuna speranza di sovvertire l’esito del combattimento.

Lotta tra due Cani Corsi, incisione di Bartolomeo Pinelli (Roma, 1800 ca.)
Lotta tra due Cani Corsi, incisione di Bartolomeo Pinelli (Roma, 1800 ca.)

Raramente, tuttavia, questi combattimenti, pur cruenti, finivano con la morte di uno dei contendenti. Il proprietario del vincitore con una mano ne afferrava il collare e, urlando di mollare, con l’altra ne stringeva i testicoli in modo secco e rapido, approfittando dell’attimo in cui il cane allentava la presa per tirarlo via a viva forza. Altre volte si tentava di far mollare la presa facendo mancare il respiro al cane con una catena stretta attorno al collo. Era un metodo più lungo e conseguentemente rischioso per il vinto. Il proprietario del vincitore poteva poi vantarsi coi presenti delle doti del proprio campione esibito a riprova delle qualità della propria linea di sangue e della selezione operata.

Doti, quindi, di carattere: equilibrio, dominanza, tenacia, combattività, ubbidienza al comando; doti fisiche: forza, resistenza al dolore e alla fatica, validità come riproduttore.

In sintesi un ottimo cane da guardia e difesa con una genetica di tutto rispetto da assicurare ad una degna progenie. Al perdente, invece, l’umiliazione di andare con orecchie e coda bassa a lambirsi le ferite in un angolo, tra lo sdegno del padrone e dei presenti.

Più raramente i combattimenti erano organizzati a fine di lucro, per scommessa o desiderio di umiliare l’antagonista. Erano queste usanze, di pertinenza quasi esclusiva di persone prive di scrupoli o briganti, che facevano del Corso un guardaspalle affidabilissimo, aggressivo e pericoloso. I combattimenti avvenivano in grande clandestinità ed i contendenti erano «nudi», privi di collare. Si puntavano grosse somme di denaro e l’esito era all’ultimo sangue.

I cani utilizzati erano frutto d’una selezione abnorme, mirante a creare ceppi particolarmente feroci e addestrati sin da piccoli all’uopo. Un metodo molto barbaro consisteva nel rinchiudere il cucciolone in un sacco che, fatto rotolare per una breve scarpata, veniva poi brutalmente frustato. Una volta aperto il sacco e liberato il cane, se questo reagiva aggredendo gli «addestratori» veniva «promosso» per l’addestramento, altrimenti veniva scartato e regalato.

Ogni attuale velleità, tesa a far rivivere queste usanze detestabili, conseguenza di mentalità barbara e arretrata, è da condannare con decisione. Noi ne abbiamo fatto solo un asettico cenno storico, frammento di un’epoca in cui la durezza della vita plasmava uomini e cani, creando una realtà rude, a volte cruda e inumana, altre suggestiva e affascinante.

La selezione attuale, la vita a contatto con l’uomo, le premure della famiglia hanno fortunatamente estirpato del tutto l’attitudine al combattimento del Cane Corso, non più accettabile nella società odierna.

Fin da cucciolo ha un carattere bonario e accattivante, totalmente fiducioso e dedito all’uomo, che, solo, può alterarne l’equilibrio nel bene e nel male: può farne un amico d’incomparabile dolcezza o una pericolosa macchina di morte.

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Parlare degli impieghi tradizionali del Cane Corso nell’arcaico Meridione rurale significa ricostruire un contesto socio-economico ormai scomparso, al centro del quale vi era la masseria, erede diretta dellacurtisd’epoca tardo-romana e vero e proprio fulcro dell’attività economica dell’epoca. Come lacurtisromana, la masseria rispondeva innanzitutto ad esigenze difensive.

Infatti, se ancora funesto è il ricordo delle scorrerie saracene dal mare, non meno lo è quello dei saccheggi da parte di eserciti stranieri, mercenari, briganti e soldataglia in genere, per non parlare poi delle continue lotte tra città e fazioni rivali.

Per tali motivi la masseria generalmente si sviluppa attorno ad opere di fortificazione preesistenti, quali castelli, casali fortificati e torri d’avvistamento, attorno alle quali, in epoche successive, l’abitato si allargava ordinatamente con una disposizione a rettangolo degli edifici.

Nel Meridione la tipologia delle masserie è varia e diversificata ed è solo osservando la struttura preesistente, da cui origina il complesso, che si può classificarle. Distinguiamo così masserie a castello, a torre o compatte ove attorno al piazzale si sviluppano i vari elementi. Singolari e tipiche sono poi le masserie che, nella Valle d’Itria, si presentano come un armonioso e originale insieme di trulli, riprendendo la tipica struttura architettonica della zona. Tuttavia, pur con un’ampia tipologia, tutte le masserie rispondevano solo ad esigenze funzionali ed economiche e per questo tutte sono accomunate da una razionale disposizione degli edifici. Al centro vi era un cortile (curtis) cintato e delimitato dai diversi fabbricati, normalmente destinato all’allevamento dei maiali e dei gallinacei, oltre che allo svolgimento delle tipiche attività rurali.

A ridosso della corte vi era l’abitazione del proprietario e dei suoi aiutanti (domus) e la cappella, entrambe particolarmente curate nella forma architettonica. Più esternamente vi era un insieme di altri locali (casalinum) rispondenti a molteplici funzioni: cantina, frantoio, mulino, forno, ecc… Contiguo alcasalinumvi era la casa del massaro e dei contadini (massaricia), più all’esterno la «cafoneria», destinata ai lavoratori stagionali e poi via via le stalle, l’ovile (jazzo), l’aia, la colombaia, l’orto, il vigneto, l’agrumeto, l’oliveto.

Fuori del recinto, i campi coltivati, prevalentemente a cereali, e i pascoli per bovini e equini allevati bradi o semibradi.

In sintesi, ne risultava un’entità autosufficiente, perfettamente rispondente alle necessità  economico-rurali dell’epoca: un piccolo villaggio fortificato, organizzato ed autonomo, attorno al quale gravitavano attività commerciali, agricole e pastorali.

Nel Meridione la masseria testimonia passato e presente ed è in questo contesto che il Cane Corso s’inseriva come valido ed efficace ausiliare nello svolgimento delle mansioni imposte dal duro lavoro e dagli usi di vita dell’epoca.

Durante il giorno la masseria era centro di attività e commerci, un continuo via vai di macellai che acquistavano il bestiame vivo; di commercianti che trattano prodotti agricoli, l’acquisizione di formaggi e latticini, l’ammasso del latte per i posti di raccolta e ogni altro genere di prodotto risultante dall’attività massale; di carrettieri che assicuravano i collegamenti ed il trasporto delle granaglie ed ogni altra mercanzia e materiale. Tutti questi operatori, abituali frequentatori della masseria, erano soliti farsi accompagnare e proteggere da Cani Corsi, che in genere tenevano legati ai loro calessi o carri. Per evitare che i Corsi, adibiti dal massaro alla guardia di magazzini e fabbricati, oltre che del bestiame a stabulazione permanente, venissero a inopportuno contatto con persone e cani estranei si usava tenerli legati a catena. Di giorno, quindi, il Corso diveniva un vigile e incorruttibile cane da catena. Affinché i loro cani potessero operare al meglio ed il più efficacemente possibile, i massari hanno perfezionato nel tempo un originale e funzionale metodo. Al cane veniva messo un robusto collare di cuoio dotato di un anello girevole (volano) a cui veniva agganciata la catena, assicurata a sua volta ad una carrucola che scorreva su un solido cavo aereo.

Tipico collare per Cane Corso con le due caratteristiche stringhe di chiusura, l'anello girevole a cui attaccare la catena e le sigle della famiglia a cui apparteneva il cane.
Tipico collare per Cane Corso con le due caratteristiche stringhe di chiusura, l’anello girevole a cui attaccare la catena e le sigle della famiglia a cui apparteneva il cane.

Tale sistema assicurava al cane una «mobilità delimitata», permettendogli di muoversi liberamente e senza l’intralcio della catena nell’area da sorvegliare Inoltre, nel caso che la guardia fosse affidata a più Corsi, si potevano delimitare le zone di sorveglianza, evitando nel contempo pericolose e cruente zuffe tra cani per il possesso delle femmine in estro o della ciotola del cibo.

Abitualmente al soggetto più forte e aggressivo si affidava la vigilanza dell’accesso alla stalla onde, nascosto dalla porta, potesse sfruttare al meglio L’effetto sorpresa. Solo i cani ormai vecchi ed i cuccioli erano lasciati in libertà, assieme ai volpini, chiamatipumacchiopumetti, alludendo al loro aspetto che ricordava un piumino. Per evitare che il collare potesse col tempo causare piaghe e traumi al cane, particolare attenzione era dedicata alla sua fattura. Si trattava di un insieme di strisce di cuoio, larghe dai 10 ai 15 centimetri, conciate particolarmente morbide all’interno e dure all’esterno, in maniera straordinariamente simile agli antichi melli romani. La chiusura del collare era assicurata da due robuste cinghie di cuoio. La sua costruzione era affidata ad esperti artigiani che ne decoravano la parte esterna con tale fantasia da produrre dei veri capolavori d’ornato, tanto che talvolta vi decoravano lo stemma di famiglia.

Il sistema delle catene aeree, inoltre, impediva che i cacciatori a piedi o a cavallo si avvicinassero troppo alla masseria coi loro cani, danneggiando le colture o importunando il bestiame e evitava, nel contempo, che occasionali viandanti fossero aggrediti.

Di notte, invece, essendo necessaria una più stretta sorveglianza, il Cane Corso, liberato dai suoi vincoli, poteva intervenire efficacemente contro chiunque profanasse il territorio a lui affidato, uomo o animale.

I predatori notturni erano sovente volpi e mustelidi (faine o donnole) e raramente lupi ed orsi. Contro di essi i cani intervenivano risolutamente mettendoli in fuga e talvolta uccidendoli. Tuttavia i nemici più pericolosi ed infidi erano i ladri dediti all’abigeato.

Gli aneddoti riguardo agli espedienti utilizzati per rendere inoffensivi i cani e trafugare il bestiame sono innumerevoli e, a volte, di radice antica, contornata di magia e superstizione. Uno tra i più curiosi racconta che il ladro si avvicinava cautamente al ricovero del bestiame, stringendo tra le mani un laccio di pelle di cane e, richiamando l’attenzione dei cani con sommesso guaire, ripeteva per tre volte la seguente filastrocca:

«cane, cagnastro,
quando c’eri tu Cristo non era nato,
Cristo nato,
cane legato»

Ad ogni filastrocca corrispondeva un nodo al laccio, al terzo nodo i cani cadevano in un sonno profondo. Il ladro era così libero di portare a termine in tutta tranquillità la sua opera, per poi togliere l’incantesimo sciogliendo i nodi. Espediente molto più efficace e sicuro era invece quello di imbrattarsi gli abiti con la secrezione di una cagna in calore al fine di rendere i cani docili ed inoffensivi. Sovente, tuttavia, queste astuzie erano inefficaci o per l’abbaiare insistente di qualche pumetto o per l’intervento di qualche cagna più smaliziata. Le conseguenze erano gravi: i cani attaccavano tenacemente, senza sosta e talvolta ci scappava addirittura il morto. Per tale motivo il Cane Corso veniva definito «combattente», senza alcun riferimento, quindi, alla barbara e riprovevole usanza del combattimento tra cani organizzato per scommessa. Certo, non si può negare, che il quotidiano contatto tra i cani della masseria e quelli dei suoi frequentatori stimolasse talvolta i proprietari a provare la superiorità dei propri cani. Uno sfottò, una battuta di troppo e il combattimento era immediatamente organizzato. I cani erano portati in un luogo neutrale, onde evitare vantaggi territoriali, e accuratamente lavati al fine di scongiurare la presenza di sostanze nocive o sgradevoli sul pelo dei contendenti. A questo punto i proprietari mettevano i cani uno di fronte all’altro e, trattenendoli a cavalcioni, li aizzavano al parossismo. Una volta liberati, i cani si azzuffavano e, alzandosi sulle zampe posteriori, petto contro petto, avvinghiandosi l’uno all’altro con le zampe anteriori in un abbraccio da lottatori, cercavano di mordere al collo e di atterrarsi a vicenda. I morsi dell’uno venivano parati dai denti dell’altro, in un susseguirsi crescente di spinte e perdite d’equilibrio e di riassetto in posizione. Lo spettacolo, raccapricciante e selvaggio, affascinava gli spettatori che, tenendosi a debita distanza, delimitavano l’arena improvvisata, mentre i proprietari continuavano a seguire da vicino i propri cani incitandoli. La scena è efficacemente riprodotta in un’incisione di Bartolomeo Pinelli. Il combattimento durava normalmente una decina di minuti e finiva col prevalere del più forte che, afferrato l’avversario al collo, lo atterrava rendendolo inoffensivo, né esso stesso poteva mollarlo serrando le mascelle in una specie di spasmo nervoso. Il proprietario gridava allora che il suo campione aveva‘mpresato (termine da cui deriva l’espressione «cane da presa»), proclamando la fine del combattimento. Per il perdente, stretto e immobilizzato dalla ferrea presa del vincitore, non vi era più alcuna speranza di sovvertire l’esito del combattimento.

Lotta tra due Cani Corsi, incisione di Bartolomeo Pinelli (Roma, 1800 ca.)
Lotta tra due Cani Corsi, incisione di Bartolomeo Pinelli (Roma, 1800 ca.)

Raramente, tuttavia, questi combattimenti, pur cruenti, finivano con la morte di uno dei contendenti. Il proprietario del vincitore con una mano ne afferrava il collare e, urlando di mollare, con l’altra ne stringeva i testicoli in modo secco e rapido, approfittando dell’attimo in cui il cane allentava la presa per tirarlo via a viva forza. Altre volte si tentava di far mollare la presa facendo mancare il respiro al cane con una catena stretta attorno al collo. Era un metodo più lungo e conseguentemente rischioso per il vinto. Il proprietario del vincitore poteva poi vantarsi coi presenti delle doti del proprio campione esibito a riprova delle qualità della propria linea di sangue e della selezione operata.

Doti, quindi, di carattere: equilibrio, dominanza, tenacia, combattività, ubbidienza al comando; doti fisiche: forza, resistenza al dolore e alla fatica, validità come riproduttore.

In sintesi un ottimo cane da guardia e difesa con una genetica di tutto rispetto da assicurare ad una degna progenie. Al perdente, invece, l’umiliazione di andare con orecchie e coda bassa a lambirsi le ferite in un angolo, tra lo sdegno del padrone e dei presenti.

Più raramente i combattimenti erano organizzati a fine di lucro, per scommessa o desiderio di umiliare l’antagonista. Erano queste usanze, di pertinenza quasi esclusiva di persone prive di scrupoli o briganti, che facevano del Corso un guardaspalle affidabilissimo, aggressivo e pericoloso. I combattimenti avvenivano in grande clandestinità ed i contendenti erano «nudi», privi di collare. Si puntavano grosse somme di denaro e l’esito era all’ultimo sangue.

I cani utilizzati erano frutto d’una selezione abnorme, mirante a creare ceppi particolarmente feroci e addestrati sin da piccoli all’uopo. Un metodo molto barbaro consisteva nel rinchiudere il cucciolone in un sacco che, fatto rotolare per una breve scarpata, veniva poi brutalmente frustato. Una volta aperto il sacco e liberato il cane, se questo reagiva aggredendo gli «addestratori» veniva «promosso» per l’addestramento, altrimenti veniva scartato e regalato.

Ogni attuale velleità, tesa a far rivivere queste usanze detestabili, conseguenza di mentalità barbara e arretrata, è da condannare con decisione. Noi ne abbiamo fatto solo un asettico cenno storico, frammento di un’epoca in cui la durezza della vita plasmava uomini e cani, creando una realtà rude, a volte cruda e inumana, altre suggestiva e affascinante.

La selezione attuale, la vita a contatto con l’uomo, le premure della famiglia hanno fortunatamente estirpato del tutto l’attitudine al combattimento del Cane Corso, non più accettabile nella società odierna.

Fin da cucciolo ha un carattere bonario e accattivante, totalmente fiducioso e dedito all’uomo, che, solo, può alterarne l’equilibrio nel bene e nel male: può farne un amico d’incomparabile dolcezza o una pericolosa macchina di morte.

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