Da sempre l’uomo ha immortalato con i suoi scritti e soprattutto con le sue opere d’arte l’impiego del molosso leggero nella caccia alla grande selvaggina, rendendo omaggio alle doti fisiche e caratteriali di questi cani impegnati in azioni dalla dinamica così cruenta e affascinante al tempo stesso. Cani indubbiamente molto simili all’attuale Cane Corso sono quelli scolpiti, come accennato, nei bassorilievi assiri di Ninive, risalenti al VII sec. a.C., impegnati nella caccia agli onagri che, quasi squarciando i veli del tempo, vengono riproposti nell’iconografia a tematica venatoria romana, medioevale e dell’Ottocento napoletano.
È evidente che, per tale tipo di caccia, un cane dalle caratteristiche morfo-attitudinali quali quelle del Cane Corso rappresentava la scelta ottimale: atletico, robusto, compatto, con arti solidi e ben piantati; petto ampio e torace ben sviluppato per una grande resistenza alla fatica; regione lombare corta, larga e muscolosa per un movimento sciolto, quasi felino, deciso e scattante nell’attacco. Presa tenace e inamovibile per il collo possente e i masseteri d’acciaio, la mandibola leggermente arcuata, la dentatura formidabile, leggermente prognata con canini grandi, distanziati ed incisivi in linea retta.
Carattere tenace, leale, sicuro, duttile ai vari tipi d’addestramento. Intelligenza, doti fisiche, morso serrato e, non da ultimo, un ottimo fiuto hanno fatto si che il Corso nei secoli sia sempre stato compagno dei cacciatori nei più svariati tipi di caccia, a piedi o a cavallo. Gli aristocratici ne mantenevano intere mute, con decine di esemplari, spesso superspecializzate nelle diverse mansioni e tipi di selvaggina. Tuttavia, era spesso il Cane Corso del massaro, del buttero, del pastore che, oltre al ruolo di guardiano e difensore, veniva non di rado utilizzato per battute di caccia, mettendo in luce le caratteristiche di razza polivalente.
L’amputazione della coda e degli orecchi, spesso oggi criticata come inutile crudeltà inflitta al cane dal narcisismo del proprietario, ha in realtà un’antica radice storica, maturata in secoli di esperienza e osservazione al fine di rendere il cane meno vulnerabile nella lotta contro gli animali pericolosi. Tali parti anatomiche, infatti, lasciate integre, offrivano al selvatico un ottimo appiglio, dolorosissimo per il cane che, se immobilizzato, spesso soccombeva. La coda veniva amputata alla quarta vertebra nella prima settimana di vita del cucciolo, con un taglio netto di scure o di forbici; la madre, lambendola, avrebbe provveduto poi a cicatrizzarla. Verso il terzo mese venivano tagliati gli orecchi corti, a forma di triangolo equilatero, senza impiego d’anestesia e cauterizati solo con cenere. Con un’usanza che ci riporta ad ancestrali riti e superstizioni, la parte amputata veniva in seguito data in pasto ai cuccioli, soffritta in padella, allo scopo di accrescerne la tempra e l’aggressività. Queste amputazioni, praticate per migliorare la funzionalità venatoria, conferivano al cane un aspetto decisamente più burbero, che incuteva maggiore rispetto e costituiva un ottimo deterrente, come guardiano, per tenere alla larga estranei e malintenzionati. I cacciatori, al fine di rendere la muta ancora più efficace e di migliorarne la resa, erano soliti affiancare al Cane Corso degli ibridi ottenuti accoppiando il Corso con altre razze. Allo scopo di aumentare la velocità e quindi la funzionalita come inseguitore, il Corso si usava incrociarlo col levriere italiano di grande taglia, ottenendo un cane chiamatoleporarius magnus in epoca rinascimentale e straviere nel Mezzogiorno. Altro meticcio comune era il mezzosangue, ottenuto dall’accoppiamento di un maschio di Corso con una femmina di segugio, al fine di migliorare il fiuto e la capacità di seguire la traccia del selvatico senza latrare.
Il mezzocorso era, invece, il risultato dell’accoppiamento di un maschio di Corso con una femmina di cane da pastore abruzzese che, rispetto ai genitori, migliorava sia le doti di cacciatore, sia quelle di guardiano, difensore, bovaro e pastore. Per tale motivo era spesso al fianco del pastore, quale sua difesa personale, nella transumanza o all’alpeggio e veniva talvolta impiegato come custode di mandrie e greggi. Da questo ibrido alcuni autori fanno derivare il cane da pastore abruzzese verace. Al mezzo corso, dal manto bianco spesso pezzato di nero, venivano solitamente amputate le orecchie lasciando integra la bella coda folta ed espressiva. È bene sottolineare che straviere, mezzosangue e mezzo corso erano incroci industriali o di prima generazione, non destinati a riprodursi, ma concepiti quale formidabile sintesi delle qualità morfo-attitudinali delle razze da cui derivavano.
Dalla notte dei tempi il Cane Corso è abituato ad affrontare ogni genere di selvaggina grande e pericolosa quale orsi, lupi, linci, cervi e caprioli, che scovava ed abbatteva o immobilizzava avventandosi fulmineamente sull’avversario, serrandogli la sua ferrea presa al collo sino a sentirlo esanime. Tuttora la razza conserva un patrimonio genetico di gran cacciatore ed ottimopisteur, che riteniamo venga evidenziato in particolare modo in tre differenti metodologie di caccia, le quali, per la loro diversità e singolarità, comprovano la grande duttilità e ecletticità del Cane Corso: la caccia al cinghiale, al tasso e all’istrice (di quest’ultima parleremo nel capitolo sul Cane Corso in Sicilia).
Il cinghiale è sempre stato per i cacciatori una preda molto ambita, sia per il pregio delle sue carni, della sua pelle e delle sue setole, sia per i grandi rischi che la sua cattura comportava. Infatti, specie il maschio, è un animale di mole considerevole, forte, munito di robuste e affilate zanne che, se braccato, preferisce la fuga, ma, se ferito, attacca con audacia e decisione chiunque lo affronti: uomini o cani. Questa pratica venatoria, affascinante e cruenta, ha suscitato in ogni epoca grande interesse nell’uomo, che l’ha riprodotta in innumerevoli raffigurazioni nelle quali cani molto simili al Corso sono sempre protagonisti. Nella già citata Villa romana del Casale (Il o IV se- colo d.C.), a Piazza Armerina, uno splendido mosaico raffigura una battuta di caccia. Un molosso fulvo, dalle orecchie amputate, straordinariamente simile all’attuale Corso, mostra i denti prima di avventarsi sul cinghiale già ferito a morte dalla picca del cacciatore, mentre un altro cane, simile a un robusto levriere, ha già azzannato al fianco il selvatico. L’opera evidenzia non solo l’estrema pericolosità della caccia, ma anche l’evoluta tecnica venatoria che si deduce dalla composizione della muta. Stravieri e Corsi avevano compiti diversi, i primi dovevano scovare e inseguire il selvatico, i secondi bloccarlo e immobilizzarlo sino al sopraggiungere del cacciatore che lo finiva all’arma bianca. Per il buon esito dell’azione era necessario un meticoloso addestramento, senza il quale la caccia poteva risolversi con la morte o il ferimento di uomini e cani.
Il cinghiale, come s’ detto, con repentini attacchi e cambi di direzione, è in grado di sventrare e ferire a morte con le sue zanne cani e cacciatori. La muta, pertanto, doveva essere in grado di compiere manovre coraggiose e intelligenti, seguendo una sperimentata strategia, in cui ogni soggetto, di concerto con gli altri, doveva conoscere i limiti dell’attacco e della difesa.
L’addestramento del Corso iniziava sin da cucciolo. I cacciatori erano molto meticolosi nella scelta dei cani, preferendo quelli dal carattere particolarmente forte e risoluto, di mantello fulvo con maschera nera o tigrato scuro, che nel bosco o nella macchia mediterranea ben si mimetizzano con l’ambiente. La lista bianca sul muso era molto ricercata, perché ritenuta segno di ottime attitudini venatorie.
I tipi di addestramento miravano a sfruttare e esaltare la naturale ed istintiva inclinazione del Corso a fronteggiare qualsiasi animale.
Un primo ed efficace esercizio consisteva nel portare i cuccioloni nel bosco e nel lanciare all’improvviso in un cespuglio un cinghialetto o un tasso imbalsamati affinché i cani lo scovassero e si sfogassero azzannando una preda innocua. Questo permetteva ai cuccioli di prendere confidenza col selvatico e di acquisire sicurezza in se stessi. Si passava quindi ad un secondo e più avanzato livello d’addestramento in cui i cani adulti venivano aizzati contro un verro, lasciando i cuccioloni legati ad osservare la tecnica d’attacco. Una volta che gli adulti avevano immobilizzato il maiale per il grugno o per l’orecchio, si slegavano i cuccioloni aizzandoli contro il suino con tono rassicurante e deciso. Dopo che i cani avevano preso confidenza con questi esercizi si passava a lanciarli direttamente contro un maiale per abituarli alle brusche reazioni della preda ed a una presa forte e senza errori, condotta con un esperto assalto al momento opportuno.
Oltre all’addestramento, anche l’alimentazione era molto curata, in quanto questa pratica venatoria richiede al cane un grande dispendio d’energie, dovendo seguire la preda per ore e poi affrontarla e abbatterla. Prima delle battute di caccia, si somministrano ai cani cibi di elevato contenuto proteico, quali il siero di latte, unitamente a sfarinati di granoturco, orzo o sorgo e a cruschello o pula d’avena affinché non mancasse l’apporto di carboidrati e zuccheri. Ciò permetteva ai cani di diminuire il consumo d’ossigeno, ottimizzando la cadenza cardio-respiratoria e l’efficienza delle contrazioni muscolari, consentendo un’elevata resistenza alla fatica senza appesantire troppo lo stomaco. Al ritorno dalla caccia, per permettere ai cani di reintegrare le energie e le riserve di grasso bruciate nello sforzo, si serviva loro un pastone a base di pezzi di carne e di lardo stagionato, mischiati a sangue e ossa.
La battuta di caccia poteva svolgersi a cavallo, metodo frequente presso le classi aristocratiche e più abbienti, o a piedi. In entrambi i casi si utilizzavano mute composte di Corsi, mezzosangue e, talvolta, stravieri.
Il quadro di Filippo Hackert (1737-1807), conservato alla Pinacoteca di Capodimonte, raffiguranteFerdinando I a caccia del cinghiale, ci rivela le tre fasi d’una stessa battuta di caccia a cavallo. In primo piano cavalieri e canettieri con i cani a guinzaglio che si apprestano alla caccia; sullo sfondo la muta e i cavalieri che inseguono un branco di cinghiali mentre i canettieri stanno sciogliendo altri cani; sulla destra un cinghiale afferrato all’orecchio, un paio di cani feriti, la muta e i cavalieri armati di picca che incalzano. I cani impiegati sono veltri e Cani Corsi, in prevalenza tigrati scuro e frumentini.
Un servizio di piatti decorati a «caccine» del 1750 ca. raffigura una muta di Corsi, dalle proporzioni straordinariamente collimanti con i cani odierni, impegnata a bloccare un grosso maschio di cinghiale, incitata dal suono del corno del cacciatore a cavallo.
Ben diversa era la caccia a piedi, che si svolgeva con mute meno numerose e senza battitori. Ai cani era affidata la ricerca e la seguita della traccia mentre il cacciatore metteva a frutto la sua esperienza, determinando la consistenza del branco di cinghiali osservando le buche da questi scavate nelle pozze di fango dove si erano rotolati o le rocce e i tronchi dove si erano strofinati per liberarsi dai parassiti. I più esperti riuscivano persino a stabilire peso e sesso del selvatico osservando le tracce lasciate sui tronchi de-gli alberi dalle zanne dei cinghiali, affilate come pugnali e lunghe nell’esemplare adulto anche 15 centimetri. Il determinare preventivamente le caratteristiche del selvatico non era un’inutile prova di abilità del cacciatore, ma condizione primaria per il buon esito della caccia. Infatti, se per i cani era relativamente facile affrontare e abbattere le femmine, ben altri rischi correvano affrontando i vecchi maschi. Questi vivono normalmente isolati e spesso sono accompagnati da un maschio più giovane, chiamato in gergo scudiero. Se affrontati da un paio di Corsi, nonostante l’estenuante schermaglia e gli studiati tentativi d’attacco che i cani mettevano in atto, riportavano sovente il sopravvento. I cacciatori ricorrevano, allora, ad una diversa tecnica venatoria, impiegando segugi e mezzosangue, che avevano il compito di scovare e inseguire la preda, bloccandola in un angolo sino al sopraggiungere dei cacciatori. Solo allora i Corsi venivano sciolti al fine di immobilizzare il cinghiale e di permettere al cacciatore di finirlo con lo spiedo.
L’allevamento allo stato brado dei maiali favoriva il ritorno al selvatico dei suini dispersi e la formazione di piccole tribù di ibridi frutto dell’accoppiamento con i cinghiali.
I porcari con i loro Cani Corsi si dedicavano a questo tipo di caccia, meno pericoloso per i cani, così preziosi per il loro lavoro. Cinghialetto era definito l’animale giovane sui sei mesi, porcastro il suino vicino all’anno e maiale rinselvatichito l’adulto. In genere la caccia veniva condotta con un paio di Corsi e si concludeva in modo rapido e poco insidioso. Un cane bloccava la preda per l’orecchio o per il grugno, l’altro l’abbatteva con un preciso morso alla giugulare.
Il tasso, la cui caccia ha radici molto antiche nel nostro Meridione, è da sempre una preda particolarmente pregiata per i cacciatori. Infatti, di questo mustelide, dalle dimensioni di un cane di media taglia, si utilizzava ogni parte del corpo. La pelliccia, dal mantello grigio bruno e nero con una striscia bianca dal naso alla fronte, era particolarmente ricercata per le sue setole e la pelle, conciata, veniva utilizzata per guarnire finimenti, basti da soma, selle, carri e carrozze. Dal grasso, fuso, si ricavava un unguento, cui la medicina popolare attribuiva grandi proprietà antireumatiche e la stessa carne, arrostita, era considerata una leccornia.
Avendo il tasso abitudini notturne, la caccia si svolgeva di notte, allorquando era facile sorprenderlo nei pressi di corsi d’acqua alla ricerca di piccole prede, dopo una giornata passata pigramente nella tana.
Poiché era indispensabile non rovinare la pelliccia, si era sviluppata una tecnica venatoria curiosa e singolare che non prevedeva l’utilizzo di armi da fuoco. I cacciatori utilizzavano una piccola muta di cani formata da 2 o 3 mezzosangue ed un Cane Corso. I mezzosangue erano particolarmente efficaci in questa caccia notturna, in quanto univano la capacità di fiutare le emanazioni lasciate dal selvatico su ogni tipo di terreno, anche attraverso i corsi d’acqua grazie al sensibilissimo olfatto ereditato da mamma segugio, a quella di seguire la traccia e di raggiungere la preda senza abbaiare, dote, questa, tipica del padre Corso. Ciò permetteva ai cani di sorprendere il tasso, animale molto prudente e diffidente, senza dargli il tempo di rifugiarsi nella tana, da cui sarebbe stato troppo lungo e rischioso stanarlo. Una volta arrivati a contatto col selvatico i mezzosangue lo circondavano, destreggiandosi nel tentativo di impedirgli la fuga sino al sopraggiungere del cacciatore col Corso. Il tasso tentava, infatti, di rompere l’assedio opponendo ai cani una tenace resistenza, alzandosi in posizione eretta e cercando di colpirli con tutta la potenza delle robuste zampe anteriori armate di unghie solide, lunghe ed affilate, divenendo estremamente pericoloso. L’atto finale dell’azione era competenza esclusiva del Cane Corso che, liberato dal cacciatore, affrontava il mustelide con la consueta potenza e risolutezza, attaccandolo frontalmente e facendolo ruzzolare a terra con un colpo del suo largo e poderoso petto, per poi finirlo con un morso rapido e preciso dietro la nuca.
I Cani Corsi impiegati in questo tipo di caccia venivano scelti col colore del manto il più chiaro possibile, possibilmente frumentino, al fine di poterli distinguere dal tasso anche nell’oscurità. Infatti, nel malaugurato caso che il cane non fosse riuscito ad uccidere la preda, immobilizzandola solamente, il cacciatore doveva intervenire rapidamente assestando un preciso colpo di bastone sulla testa del selvatico, evitando di colpire il Corso.
Grandi cultori della caccia al tasso erano le guardie campestri che avevano il compito di sorvegliare le colture, le messi, i raccolti, conducendo una vita dura e solitaria. Nelle masserie, finito il raccolto, la campagna malarica veniva abbandonata da tutti. Per lunghi mesi, fino al tempo della semina, vi rimaneva solo il guardiano: unico suo compagno il Cane Corso, insostituibile guardia del corpo ed interlocutore attento nei lunghi soliloqui. Nei lunghi mesi trascorsi assieme, si stabiliva una tale reciproca comprensione e affiatamento, che il Corso arrivava a manifestare un’intelligenza sbalorditiva. Le guardie campestri praticavano la caccia al tasso col solo ausilio del loro Corso. Durante il giorno le loro perlustrazioni li portavano ad individuare con sicurezza le tane del mustelide, cosicché, durante la ronda notturna, unendo l’utile al dilettevole, andavano a colpo sicuro nelle zone da lui frequentate. Ciò permetteva di evitare l’utilizzo dei mezzosangue e di portare a termine la caccia con l’impiego del solo Corso, particolarmente addestrato e in sintonia col cacciatore.
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Dopo la caduta dell’Impero Romano, la nuova società feudale romano-germanica, che diede vita alla cultura medioevale, cambiò, assieme alla geografia economico-sociale d’Europa, anche il nome dell’anticopugnaxromano. Si cominciò infatti a chiamare Cane Corso il molosso italico, come testimonia una vasta bibliografia, che spazia in un arco temporale che dal Medioevo ci porta ai nostri giorni.
L’origine del nome è controversa e le varie ipotesi sull’etimo sono già state trattate. È tuttavia doveroso sottolineare come, assieme al termine Corso, anche quelli di mastino, dogo, alano, molosso, fossero indistintamente utilizzati per indicare i cani molossoidi in genere. L’origine di questa confusione terminologica è probabilmente da ricercarsi nella amalgama e nella sovrapposizione di vari ceppi linguistici, dovuti alle invasioni barbariche, con la conseguente nascita delle lingue romanze nell’Europa latina.
Ritroviamo così il termine mastino nel francesemâtin, dove sembra indicare più il cane da pastore che il molosso, che invece l’inglese chiamamastiff.
Dogo, nel francese diventadoguee nel tedescodogge(Deutsche Dogge è tuttora il nome tedesco dell’alano), termini che si riferiscono certamente al molosso, derivando dall’inglesedogche anticamente indicava una possente razza di cani, in quanto, in inglese antico, genericamente il cane erahund(hound).
Preferiamo non approfondire l’aspetto di ricerca dell’origine etimologica di tali termini, certamente interessante e controversa quanto quella dell’etimo Corso, ma sottolineare invece che, oltre ai diversi modi summenzionati di indicare il molosso, le invasioni barbariche portarono nuovi ceppi molossoidi che sicuramente contribuirono a rinsanguare ed a differenziare ulteriormente gli antichicanes pugnaces romani. La storiografia non ci fornisce purtroppo la chiave di lettura per identificare con l’uno o l’altro termine una precisa tipologia di molosso.
Dei cani si cantano le lodi, le virtù, la prestanza fisica, ma le descrizioni morfologiche sono troppo rare e generiche per permettere di distinguere, con moderni parametri cinotecnici, l’una o l’altra razza. Del resto, come avremo modo di approfondire, il concetto di razza è stato, sino alla soglia dei nostri giorni, molto generico e per lo più serviva ad indicare le caratteristiche morfo-funzionali ottimali per un determinato impiego del cane.
L’utilizzo prevalente del Cane Corso fu nella caccia alla grossa selvaggina, come innumerevoli testimonianze iconografiche e storiografiche medioevali e rinascimentali ci tramandano. Una miniatura di Giovannino de’ Grassi, risalente al 1390 ca., intitolataCacia di porco cingiate, illustra una muta di sette cani che azzannano un cinghiale ormai esanime. Tre di questi hanno una testa con caratteristiche molossoidi molto marcate: il muso è cortissimo, il cranio largo. Tuttavia il corpo presenta arti allungati, ventre leggermente retratto, struttura asciutta e nevrile tipica dei cani atti ad inseguire la preda (un’altra miniatura del de’ Grassi descrive in modo più esplicito un molosso prognato con le stesse caratteristiche). Il resto della muta è composto da due levrieri e da due esemplari con connotazioni molossoidi più lievi, probabilmente frutto di un incrocio tra molosso e levriero molto comune all’epoca, chiamatoleporarius magnus.
Incredibilmente simili al Cane Corso sono, invece, i molossi raffigurati in un affresco di un palazzo patrizio veronese risalente al 1400 ca., anch’essi impegnati nella caccia al cinghiale. Il letterato e umanista Giulio Cesare Scaligero (1484-1558), nella sua traduzione commentata in latino dellaStoria degli animali di Aristotele, parla di cani di grossa taglia, capaci di affrontare tori e cinghiali, chiamati alani, Corsi, dogas. Li descrive, purtroppo, senza distinguere l’uno dall’altro, dalle dimensioni di vitelli di tre mesi, con grosse fauci ed arti bovini.
Non accenna alla morfologia neppure Teofilo Folengo (1491-1544) che, nel manoscritto in latino maccheronico dettoBaldus, si diletta a descrivere alcuni tipi di caccia in cui è impiegato il Cane Corso: «(…) Come spesso avviene, allorché l’orso graffiante viene circondato da i Cani Corsi e dalle uncinate lance degli uomini (…) Non altrimenti ruggisce il leone, ferito dal cacciatore quando il dente e l’unghia inutilmente affonda nei Cani Corsi o nei molossi (…)».
Dell’impiego venatorio del Corso ci è lasciata traccia anche in una lettera che Federico Gonzaga, duca di Mantova, indirizzò nel 1530 al re di Polonia che gliene chiedeva alcuni esemplari: «lo haveva bene alcuni cani corsi, ma in le cacce che si son fatte in questi giorni mi sono stati morti dalli cingiari».
Il naturalista svizzero Konrad von Gesner (1516 — 1565) nella suaHistoria Animalium, edita in latino, sezioneDe Quadrupedibus, dedica un capitolo alDe Cane Venatico Robusto, Adversus magnas aut fortes Feras in cui descrive, con inusuale dettaglio per l’epoca, il Cane Corso: «Alberto (si riferisce ad Alberto Magno,1193-1280, filosofo e teologo domenicano che tradusse le opere di Aristotele) traduce “molosso” con “mastino”: parole in uso presso gli ita- liani e gli inglesi, ma di cui non conosco l’origine, so solo che mastino racchiude la parola Massimo. I tedeschi lo chiamanoRüden(rozzo), forse proprio perché è un cane rude. (…) in Corsica ci sono molti cani feroci; intrepidi nell’inseguimento e nella presa di ogni tipo di animali. Si devono scegliere quelli forniti di muso impressionante, di testa molto larga, con il labbro superiore pendente sull’inferiore, con occhi rosseggianti, con narici dilatate e che sembrino emettere vapori di fuoco, con denti aguzzi, con poderoso collo, con petto largo; avanzino superbi come leoni, con grandi piedi e con sproporzionate dita, le unghie siano dure e ricurve in modo che meglio aderiscano al suolo e abbattano con più violenza la preda. Con questo tipo di cani i cacciatori possono con facilità raggiungere e catturare la selvaggina. In Italia e soprattutto a Roma si dice che ci si serve dei Cani Corsi (Curshund) contro cinghiali e tori selvatici. (…) Il molosso è di grande taglia e gran morditore, come il Cane Corso. Ritengo che lo si consideri morditore, non perché azzanni senza ragione, ma perché ha una presa energica e a stento molla il morso inflitto alle fiere. Del resto, io so che il Cane Corso, quando ha ficcato le zanne nel cinghiale o nel toro selvatico, non può essere separato dalla preda senza l’intervento deciso del cacciatore sulle mandibole serrate.»
Riteniamo che il brano sia di grande interesse, in quanto da esso possono essere ricavati alcuni indizi utili alla nostra ricerca. Anzitutto la distinzione, già presente nel Folengo, tra molosso o mastino e Cane Corso: la morfologia è simile, tuttavia il Corso è adatto non solo ad abbattere la preda, ma anche ad inseguirla. In secondo luogo ci conferma il significato di Cane Corso come cane robusto.
Anche se il Gesner traduce in latino Cane Corso conCanum ex Corsica o Corsicanum, lasciandosi ingannare dal nome, titola il capitoloDe Cane Venatico Robusto, cioè «del cane da caccia robusto», utilizzato non in Corsica, ma in Italia, specie a Roma.
Tito Giovanni Scandiano nel suo Poema della Caccia (1556), ci fornisce altre utili indicazioni sull’utilizzo del nostro cane: «… altri, detti Corsi, per assalire, mordere e tener cinghiali, orsi e lupi». Tuttavia la più efficace ed affascinante celebrazione poetica del Cane Corso è quella fatta da Erasmo da Valvasone (1523-1593) nel suo poemaLa Caccia:
Canto Primo
«Il Corso ha gran possanza, ardito assale
La fera, et la ritien: poiché l’ha presa,
Sciorre il dente non sa: ma poco vale
Per raggiungerla poi, che in fuga è stesa:
Non ha del ciel sortita al nome eguale
Prestezza il corpo suo, che troppo pesa:
Et la virtù diffusa in si gran seno Mal lo riempie e ne vien tosto meno».
consigliando quindi un tipo costituzionale adatto a cacciare l’orso, il lupo o il cinghiale lo vuole:
Canto Secondo
«Simile al veltro in tutti i membri suoi
O sia corso, od alano, o forse uscito
Fuor dell’Epiro, o de la gran Bretagna,
Come il veliro sia destro, et sia spedito,
Ma di persona più gagliarda et magna:
Sia grosso, ma non grave, od impedito
Da tanta mole, che la lena fragna:
Abondi di grand’ossa, et di gran nerbo,
Et sia facile a l’ira, aspro et superbo.»
ricerca perciò un tipo con morfologia più leggera rispetto a quella del Canto Primo, esigenza dettata dalla necessità di avere un cane più funzionale, certamente molto simile al Cane Corso attuale.
Un’altra testimonianza poetica di notevole interesse è quella che Giambattista Marino (1569-1625) fa nel suo idillio dedicato al mito di Atteone, incluso nella raccolta LaSampogna. Nel descrivere la caccia ad Atteone, cacciatore così abile da esser tramutato per vendetta in cervo da Artemide, dea della caccia, e quindi inseguito e sbranato dai suoi stessi cani, il Marino ordina questi ultimi in base alle loro doti di inseguitori:
«I veltri iberi e franchi sono i primi alla pesta.
Più lontani e più lenti vengon gli alani e i corsi.
Seguono i medi e i persi temerari e ardenti…»
Gli alani e i Corsi sono superati in velocità solamente dai levrieri e seguiti a ruota da medi e persi, cani difficili da identificare, ma che potrebbero essere proprio gli antichi molossi orientali.
La splendida fontana dedicata al mito di Atteone e Diana, ubicata nel parco della Reggia di Caserta e risalente alla fine del Settecento, tuttora coniuga straordinariamente poesia e scultura: nella pietra sono immortalati cani che vanno dal levriero, al Corso, al più pesante mastino napoletano. Certamente le doti di versatilità ed ecletticità del Cane Corso contribuirono non poco al successo che la razza ebbe sino a pochi decenni fa. La razza era così presente nella vita di tutti i giorni da entrare nel linguaggio comune e addirittura essere utilizzata come termine di paragone.
Niccolò Machiavelli (1469-1527), in un poemetto incompiuto,L’Asino, include la razza nel paesaggio poetico:
«Vidi una volpe maligna e ‘mportuna
che non truova ancor rete che la pigli;
e un Can corso abbaiar alla luna».
Il Corso compare anche nelPoemetto in onore del Cardinale Scipione Borghese (1628), scritto per celebrare la villa appena terminata in Roma:
«Qui li ciechi lepier e corsi
Can, di ferocità rabbiosa armati
Affrontar lupi, apri, leoni et orsi
Co’ i cacciator suoi vedrete entrati».
Presso le corti rinascimentali la razza doveva essere molto apprezzata e utilizzata, non solo per la caccia alla grande selvaggina, ma anche per i combattimenti contro altri cani od altri animali quali tori, orsi e grandi felini. Tali combattimenti non erano esclusivamente prerogativa dell’aristocrazia di corte, ma anzi erano spesso utilizzati per grandi spettacoli di piazza. Il coinvolgimento del popolo e l’atmosfera eccitata che si veniva a creare è magnificamente raffigurata nel quadro intitolatoCaccia ai tori in Piazza San Marco(1750) di Antonio Canal, detto il Canaletto, e G Battista Cimaroli.
I tori sono resi inoffensivi al pubblico perché trattenuti da lunghe funi, tuttavia conservano tutta la loro capacità di offesa nei confronti dei cani che, eccitati dai canettieri e dalle urla della folla, si avventano al musello e all’orecchio dei bovini. Impiego ben diverso è quello che, specie durante il Medioevo e Rinascimento, si fece del molosso quale cane da guardia alle costruzioni di difesa e quale strumento bellico. Sino all’avvento delle armi da fuoco le potenzialità dei cani soldati furono apprezzate, specie contro la cavalleria. Un magnifico esempio di bardatura da guerra per cani è quella esposta al Museo delle armature di Salisburgo.
Il Cane Corso fu sempre all’altezza dei vari compiti che l’uomo gli affidò nel corso della storia, tanto che il suo nome divenne sinonimo di coraggio e determinazione. Si legge infatti nelDizionario della lingua italiana di Nicolo Tommaseo (1802-1877): «Can corso, uomo di aspetto ed attitudine fiera».
L’efficacia e la solidità della sua presa erano così proverbiali che Giovanni Verga (1840-1922) usa nel suo celebre romanzoI Malavoglia il detto: «… morde peggio di un Cane Corso…».
Bartolomeo Pinelli (1781-1835), celebre incisore e scultore romano, amava includere il Cane Corso nelle sue opere. Bellissimo è l’autoritratto con un tipico esemplare di Corso sdraiato ai suoi piedi.
Tuttavia fu nel Regno delle Due Sicilie che la razza conobbe i suoi momenti di massimo splendore. I Borboni di Napoli furono grandi estimatori di questi cani, tanto che ad essi si ispirarono per i loro soggetti molti degli artisti che frequentarono la corte partenopea. Ma fu con le genti del Regno di Napoli che nei secoli si strinse un legame inscindibile col Cane Corso, tanto da essere parte integrante della loro economia, dei loro costumi e persino delle loro tradizioni, proverbi e leggende.
NelVocabolario Siciliano-Italiano per la interpretazione dei sogni ad uso dei Giocatori del Regio Lotto al Cane Corso è abbinato il numero ventidue e statuine riproducenti la razza sono parte dei più suggestivi e famosi presepi partenopei. Il legame tra il Corso e il nostro Meridione è tale che l’orizzonte storico sfuma in un amalgama di passato e presente, di vissuto e quotidianità così ampio e interessante da meritare di essere trattato in una apposita sezione di questo libro.
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