Il Cane Corso
nell'Allevamento del Bestiame

Tratto da “Il Cane Corso – Origini e prospettive del Molosso Italico” (Editore Mursia 1996) per gentile concessione degli autori Ferdinando Casolino e Stefano Gandolfi (soci fondatori della Società Italiana Cane Corso).

Abbiamo visto come la masseria fosse un’entità autosufficiente ove alle attività agricole si affiancavano quelle zootecniche. A seconda delle caratteristiche geografiche e climatiche dell’area ove sorgeva il complesso variavano le colture e il bestiame allevato. Generalmente, tuttavia, si può parlare d’indirizzi prevalenti di colture e d’allevamento, in quanto l’autosufficienza presupponeva un’equilibrata presenza di tutti i prodotti agricoli e di allevamento che le risorse del luogo permettevano. In tale contesto, ad un razionale ed efficace sfruttamento del territorio corrispondeva una pari riallocazione delle risorse umane, che trovavano nel Cane Corso un valido ausilio. Esso, infatti, si alternava nelle funzioni di guardiano, bovaro, pastore e difensore, permettendo all’uomo di dedicarsi prevalentemente alle attività agricole e di trasformazione. Gli animali allevati erano soprattutto bovini, ovini e caprini, maiali e talvolta cavalli, cui il Cane Corso si affiancava mostrando una straordinaria duttilità nell’adattarsi alle mansioni che l’uomo gli affidava.

II Corso e i cavalli

Le vaste zone di pascolo e di bosco e macchia mediterranea favorivano l’allevamento di branchi di cavalli allo stato brado. L’ampia gamma d’impieghi cui il cavallo era destinato lo rendeva un bene particolarmente prezioso per la masseria. Erano mezzi di locomozione, macchine da lavoro, irrinunciabile dote militare e finanche fornitura alimentare. Per tale motivo si allevavano soprattutto cavalli che potessero adattarsi agevolmente alla sella, alla caccia e al tiro leggero, animali abituati alla rude vita del pascolo brado nel bosco collinare, rotti ad ogni fatica. Si preferivano perciò cavalli meso-dolicomorfi per le loro caratteristiche di resistenza e velocità. Un classico esempio di mesomorfo è il cavallo Murgese, di cui, pur non potendo documentare le tappe della sua formazione, l’allevamento nella sua area d’origine è storicamente accertato sin dal XVI secolo, regnando a Napoli gli Aragonesi. Del resto, proprio nelle Murge la Repubblica di Venezia aveva avviato tra il 1495 e il 1530 un importante allevamento di cavalli, forse gli ascendenti del Murgese.

Sul Cane Corso gravava la responsabilità della vigilanza su questi animali, tanto preziosi per il proprietario, quanto ambiti dai ladri. I butteri preferivano cani con particolari colori del manto al fine di renderli difficili da scorgere e dare loro maggiori possibilità di sorpresa su eventuali malintenzionati o predatori. Cani, quindi, neri o tigrati scuri per confondersi nel buio della notte oppure «cinericci», anche tigrati, per mimetizzarsi al meglio nel terreno a tratti brullo e pietroso. Alcuni massari attribuivano a determinati colori del manto particolari qualità quali intelligenza, addestrabilità, docilità, aggressività, tanto da essere fortemente convinti, che le attitudini allo svolgimento di una particolare mansione fossero strettamente correlate al colore. Probabilmente ciò derivava dall’osservazione di soggetti che abbinavano causalmente determinate doti ad un certo colore, tanto più che l’isolamento di certi areali favoriva il formarsi di ceppi accomunati dal colore e dalla capacità, indotta con la selezione, di svolgere al meglio specifiche funzioni.

In particolare, ai cani adibiti alla vigilanza dei cavalli si richiedevano una resistenza alla fatica ed una tenacia tali da permettergli agevolmente di stare al passo col branco ed uno spiccato senso territoriale per impedire che i cavalli oltrepassassero i confini dei propri pascoli e raccogliere i puledri in fuga. Del resto, tuttora, i possessori di Cani Corsi adibiti alla guardia di abitazioni isolate, prive di recinzione, testimoniano che il cane ha un istinto territoriale così forte da non abbandonare mai la proprietà, nemmeno in caso di temporanea assenza dei padroni. Tali doti di caparbietà e vigilanza facevano del Corso un avversario temibile per i ladri di cavalli, soprattutto zingari.

L’affiatamento che si creava tra cavalli e cani era tale, che spesso i carrettieri facevano del Corso un loro fedele compagno, difensore di se stessi e delle merci trasportate. Non era raro vedere, prima che l’uomo comprimesse i cavalli in un vano motore, i cani percorrere le polverose e sconnesse strade del Meridione: il carrettiere, col tipico cappello a falda larga ornato di piume, in cassetta, assieme al vigile pumetto, ed il Corso al seguito o accovacciato nell’apposito cestone dondolante al di sotto del pianale del carro. La sua nomea di efficace deterrente contro malintenzionati o briganti lo rendeva, inoltre, il preferito per accompagnare i calessi e le carrozze dei signori, oltre che le diligenze nelle loro lunghe percorrenze.

Il Corso e i bovini

Sin al tardo Ottocento la Penisola Italiana era caratterizzata, specie lungo i litorali, da vaste aree paludose o acquitrinose. Ambienti difficili e malsani per l’uomo, spesso afflitti dalla malaria.

Letteratura e cronaca ci hanno tramandato le meste e difficili condizioni di vita delle genti che abitavano quelle zone, trovandone classici esempi nella Maremma tosco-laziale e nelle paludi Pontine, lungo il litorale tirrenico, nel delta del Po veneto-emiliano e nella piana di Policoro, lungo il litorale adriatico-ionico. In quest’ambiente, tanto ostile quanto di selvaggia bellezza, pascolavano brade grandi mandrie di bufali e di rudi bovini podolici, animali che ben si adattavano a quel terreno garantendo una buona resa economica. Il Corso era parte integrante di questo paesaggio, sostituiva l’uomo e gli risparmiava fatiche vigilando sulle mandrie, dominando all’occorrenza le furie del toro o riportando all’interno dei confini del pascolo i vivaci e riottosi vitelli.

Un simpatico aneddoto, raccontato da Fiorenzo Fiorone ne Il mio amico cane (vol. III, pag. 778), ci aiuta ad entrare nel tema: «Conosciuti in quasi tutta l’ltalia meridionale, i Cani Corsi si trovano riprodotti nel famoso presepe napoletano del ’700 del Museo di S.Martino e di altri collezionisti privati. È da presumersi che gli scultori dell’epoca ritraessero nei loro lavori le sembianze di cani allora comuni in luogo.  L’indimenticabile Giulio Colombo, che si diceva “in confidenza” con questi mastini, avendo rischiato di essere fatto fuori da una muta, da quando, avanti guerra, si recava a caccia di beccacce e di cinghiali nel pantano di Policoro, ospite dell’amico barone Berlingieri, asseriva che nelle campagne, questi cani erano guardiani di tori e bufali: li fermavano azzannandoli per l’orecchio e immobilizzandoli così tenacemente da non divaricare più le mascelle, soggiacendo quasi ad una sorta di trisma nervoso da obbligare a far leva con un bastone tra i denti perché mollassero la presa. Sempre il Colombo, spigolando fra i ricordi ad onore di questa razza fedele, ci raccontava anche di un maschio di bufalo, che, castrato dal massaro nella tenuta di Policoro, ricordando l’estremo oltraggio, ogni mattina aspettava il profanatore della sua virilità fuori della porta della bufaleria cercando di caricalo. Un giorno il massaro venne sorpreso dalla carica: per salvarsi si gettò carponi. Già il vendicativo bufalo stava per raggiungerlo e incornarlo quando Aiace, il mastino del massaro, con un balzo si slanciò contro l’animale infuriato azzannandolo. Lo avvinchiò e nella mischia finirono entrambi in un fossato. Aiace ferito, padrone salvato».

Maiolica di Francesco Antonio Saverio (XVIII sec.) raffigurante un singolare Corso bianco che afferra un bovino all’orecchio.
Maiolica di Francesco Antonio Saverio (XVIII sec.) raffigurante un singolare Corso bianco che afferra un bovino all’orecchio.

 Una maiolica di Francesco Antonio Saverio e un’incisione di Bartolomeo Pinelli ci descrivono con crudo realismo l’azione: un Cane Corso trattiene un grosso toro podolico dalle corna lunate azzannandolo all’orecchio, parte assai dolorosa e vulnerabile, al pari del musello.

Cani, dunque, decisi, risoluti, dominanti, capaci di tenere testa ad animali terribili e poderosi quali i tori inferociti. L’azione era tutt’altro che facile e richiedeva esperienza e determinazione. Si sviluppava tra cane e toro una schermaglia rapida e micidiale. Il toro si difendeva con ripetute cariche a testa bassa, sbuffando e scalpitando, mentre il cane cercava di evitare le affilate corna con scarti repentini aspettando il momento opportuno per balzare sull’avversario serrando la sua ferrea presa in una delle parti dolorose e, resistendo alle impetuose scrollate, bloccarlo stringendolo alla resa in un turbinio di polvere. La solidità della presa, dovuta ad una dentatura leggermente prognata, era perciò una dote irrinunciabile nei cani, cui i butteri davano primaria importanza.

Ben si comprende, quindi, come i ladri si tenessero alla larga dalle mandrie e quale triste sorte fosse riservata ai predatori. Questi ultimi, appena avvistati, venivano attaccati da una coppia di cani che, rag-giunto l’intruso, lo afferravano tenacemente l’uno al collo, l’altro alla fossa del fianco iniziando a tirare in senso opposto sino a lacerarne le carni nel giro d’una decina di minuti. Gli altri cani tenevano flemmatica-mente sotto controllo la situazione, non allontanandosi dai bovini in stato di agitazione. L’eventuale intervento avveniva solo in caso di predatori grandi e pericolosi, quali lupi od orsi da mettere in fuga. I butteri potevano così limitarsi a controllare le mandrie con qualche breve ispezione a cavallo, approfittando dell’occasione per nutrire i cani. Solo le femmine prossime al parto e i cani ormai anziani erano esentati dal seguire i bovini e venivano tenuti vicino agli stazzi o nei cortili delle masserie per compiti meno impegnativi. Mansione particolarmente difficile era quella affidata ai Cani Corsi dei macellai dalla tipica lista bianca sul muso, che dovevano guidare i capi dalle aree di pascolo al mattatoio. Il viaggio si svolgeva, spesso, su percorsi di decine di chilometri, necessitando a volte di una sosta notturna. Normalmente bastava un solo cane per raccogliere e guidare più di una trentina di capi, su cui il Corso esercitava un’attenta e sensibile sorveglianza. I bovini, cresciuti bradi, avevano la stessa pericolosità degli animali selvatici e i Corsi, per averne ragione, dovevano riuscire a bloccare il maschio dominante onde rendere più mansueta e guidabile la mandria. Solo al mattatoio i cani terminavano il loro gravoso compito aiutando il macellaio ad immobilizzare gli atterriti bovini per facilitarne la macellazione.

A volte accadeva che, nelle fiere del bestiame, un toro o un bufalo inferocito, sfuggiti al controllo del proprietario, seminassero scompiglio e panico tra la gente. I Corsi, allora, al comando del padrone, intervenivano risolutamente ed efficacemente, bloccando l’animale con la consueta precisione. L’azione rapida e affascinante suscitava l’ammirazione degli occasionali spettatori trepidanti dalla paura, dei quali i Corsi divenivano i beniamini ignari e applauditi.

A ragion veduta possiamo quindi definire il Corso un vero e proprio «bovaro italiano». Oltre che per la sorveglianza e la guida del bestiame cresciuto brado, il Corso era, come abbiamo già detto, ausiliare del massaro nell’allevamento dei bovini a stabulazione permanente tenuto nelle stalle o negli stazzi. A tal proposito è interessante annotare come il Cane Corso adibito a quest’ultima funzione, diversamente da quanto avveniva per quello impegnato al pascolo, venisse talvolta, disinvoltamente e sbrigativamente, chiamato indifferentemente Corso o mastino. Ciò avveniva in special modo in provincia di Matera, nella valle dell’Ofanto ed in parte del Sannio.

Del resto lo stesso cane da pastore abruzzese veniva spesso chiamato mastino d’Abruzzo o più semplicemente mastino. Misteri ed approssimazioni degli idiomi del Meridione, le cui sfumature non siamo riusciti ad indagare nemmeno con i nostri ricordi, le nostre ricerche e con le lunghe chiacchierate con la gente dei luoghi ove il Corso sempre è vissuto e vive ancor oggi.

Nel Gargano l’allevamento a stabulazione permanente del bufalo e della vacca monaca ha antiche radici ed è tuttora un’attività a cui si dedicano molte masserie. Il Cane Corso, come sempre, vi svolge tuttora il suo lavoro alla catena. I massari danno poca importanza al colore del manto, cui non attribuiscono alcuna particolare attitudine, preferendo osservare la predisposizione al lavoro dei cuccioloni che imparano dai cani più esperti. Diversamente da quanto avveniva in passato, dove gli accoppiamenti avvenivano spontaneamente con la prevalenza dello stallone più forte, oggi la selezione è molto più curata. Del resto, ci viene raccontato, una volta i cani erano numerosi e non v’erano rischi d’intrusione di razze estranee.

Cane Corso fulvo, «Gruppo del Sammartino»; presepe della Collezione Catello (XVIII sec.).
Cane Corso fulvo, «Gruppo del Sammartino»; presepe della Collezione Catello (XVIII sec.).

Un suggestivo quadro comprovante l’antica fusione tra bovini, butteri e Cane Corso ci è oggi dato da un gruppo di statuine facenti parte del così detto «Gruppo di Sammartino», presepe della collezione Catello. Tre vitelli, una vacca, un secchio di latte, un poderoso toro, due butteri e un Cane Corso: fulvo con maschera nera, orecchie e coda amputate, muscoloso e asciutto, testa tipica dall’atteggiamento vigile, attorno al collo l’inconfondibile collare tradizionale. Un molosso armonico, funzionale, testimonianza della secolare tradizione bucolica meridionale.

Il Corso, gli ovini e i caprini

La pastorizia è un’attività antica quanto l’uomo, che nel nostro Meridione si è evoluta e perfezionata sino a delineare i tratti e le impostazioni economiche di vaste aree. Sino alle soglie della Seconda guerra mondiale ovini e caprini avevano una consistenza di centinaia di migliaia di capi, organizzati secondo una gerarchia semplice e chiara, quasi militare, che frazionava e raggruppava animali e addetti. Lapuntao laposta, sovente di un solo proprietario, consisteva di circa 10-15.000 capi ed era composta da varie morre costituite da circa 400-500 ovini e caprini ciascuna.

Parimenti gli addetti erano articolati secondo un organigramma che vedeva al vertice i dirigenti e poi via via i subalterni, i pastori, gli aiutanti formando una comunità di circa una sessantina di persone.

Il risultato era una macchina produttiva efficiente che, autonomamente, massimizzava lo sfruttamento dei pascoli e la produzione dei derivati del gregge quali carne, lana e latte. In questo contesto il cane da pastore d’Abruzzo regnava sovrano, insostituibile, indiscusso e incontrastato.

Unapuntaopostane vedeva impegnati finanche 200, divisi in ragione di 4 o 5 per morra. La Guardia Forestale, negli anni ‘70, allorquando le attività pastorali erano fortemente ridotte, ne censiva ancora circa 3000 esemplari nelle aree rurali delle diverse regioni meridionali. Un numero alquanto riduttivo secondo gli esperti. Tuttavia, anche il Cane Corso trovava in quest’ambiente una sua ben definita e razionale funzione, pur non invadendo il campo d’azione del cane da pastore abruzzese. Infatti, quest’ultimo, spesso chiamato semplicemente cane bianco o mastino d’Abruzzo o cane da pecora o pasturigno è, per carattere, poco incline all’uomo, attaccato più che al pastore al gregge, di cui segue e vigila ogni spostamento e sosta al pascolo, non permettendo ad alcuno, uomo o animale, di avvicinarsi. Al contrario, il Cane Corso sente prepotentemente il bisogno della presenza e del contatto con l’uomo, non allontanandosi mai più di tanto dal pastore, da cui si lasciava plasmare e addestrare alle più varie mansioni. Aveva funzioni soprattutto di controllo territoriale dei pascoli in assenza delle greggi o era adibito alla guardia di ovili, di stazzi (scariazzi ojazzi) e delle case coloniche, ove spesso era presente un porcile (casiedd) con un gruppetto di maiali ed una piccola stalla di bovini.

Ma era nel periodo della piccola e della grande transumanza delle greggi, che le qualità della razza si evidenziavano in modo particolare. La transumanza è un rito arcaico, che affonda le sue radici nelle lontane migrazioni stagionali dei fieri e bellicosi pastori guerrieri italici dell’epoca preromana, che coi loro armenti muovevano dai montani pascoli estivi ai ricoveri invernali a fondovalle.

La piccola transumanza, forse la più antica, avveniva per brevi spostamenti, quasi in posizione verticale, tra monte e valle, quali ad esempio tra Monte Carmine, Santa Croce e Vulture verso la fiumara di Atella oppure verso Gaudiano e Venosa oppure verso il Piano dell’Ofanto e la Frasca di Melfi o Vaccareccia e ancora tra Monti del Matese e Basso Molise.

La grande transumanza, sicuramente la più nota, avveniva per lunghi spostamenti, su percorsi di giorni, secondo un’immagine orizzontale tra monti d’Abruzzo e Tavoliere di Puglia. I percorsi erano prestabiliti, quasi immutati nei secoli, su sentieri e vie erbose denominati tratturi nell’Italia continentale e trazzene in Sicilia. La partenza avveniva con accurati preparativi e dopo che i dirigenti avevano studiato la ripartizione delle punte e delle soste lungo l’itinerario. Ogni gregge, provenendo dal proprio pascolo, seguiva percorsi diversi accomunati da un’unica destinazione secondo il preordinato e regolamentato sistema dei regi tratturi.

Era un flusso quasi senza termine e senza misure, un mare ondulato di velli, un avanzare di uomini rudi, coperti di pelli, dal volto scavato, antico, che scendevano a valle calcando sui tacchi. I pastori si disponevano, con esperta e studiata strategia, nel distacco tra le morre, seguendone la pastura durante il giorno e disponendosi attorno ai bivacchi per il riposo notturno. Accanto a loro, i Cani Corsi, che ne seguivano ogni gesto, ogni sguardo, pronti all’eventuale intervento, spontaneo o a comando, con attacco bruciante e incisivo. I bianchi cani da pastore d’Abruzzo confusi tra gli armenti o di ronda sui sentieri e sui fianchi del gregge, guardiani vigili e silenziosi.

Un sistema efficiente, collaudato, che permetteva alle pecore di raggiungere la mèta senza inconvenienti e senza perdite, tanto che l’abigeato era più facile a destinazione che non lungo il cammino.

Infine, la vasta pianura, i verdi pascoli mossi dal vento, le zuffe tra cani immigrati e cani stanziali, l’incontro tra gli uomini.

Di anno in anno si riannodavano legami di vita tra diverse culture, si ristabilivano antichi rapporti tra economie del monte e del piano: tra i Massicei della Maiella, del Gran Sasso, del Matese e Tavoliere, Capi-tanata, Antica Daunia per citare i più noti.

Nei sette mesi compresi tra novembre e maggio al riposo si concedeva solo il tempo necessario, dedicandosi totalmente al lavoro. Era il periodo della massima produzione e la quiete intervallava solo i programmi che precedevano le diverse attività. Era la stagione della tosatura delle pecore, della nascita di agnelli e capretti, della lavorazione del formaggio e dell’accudimento dei pascoli.

La prima mungitura del latte si eseguiva all’alba, prima di avviare il bestiame al pascolo, la seconda la sera al ritorno all’ovile. Agnelli e capretti, rimasti nei recinti, cercavano le madri, di ritorno dal pascolo per l’allattamento, con un sommesso belare e, individua-tele, le raggiungevano saltellando attaccandosi voracemente e senza indugio ai capezzoli turgidi di latte. Si potevano osservare agnelli dal vello scuro che, fra tante pecore chiare, raggiungevano e si attaccavano immediatamente alle madri di identico colore, al pari dei capretti che individuavano all’istante mamma capra, in un quadro di toccante tenerezza.

Durante il giorno la squadra dei caciari era impiegata intorno ai fuochi per la lavorazione e trasformazione di lunghe file di recipienti ricolmi di latte e per collocare le forme nei locali di stagionatura. In mezzo a tutto questo trambusto il compito del Cane Corso diveniva gravoso e indispensabile per l’enorme valore e quantità di materiali in deposito. Attaccati alle catene aeree pattugliavano senza sosta i recinti di agnelli e capretti, i depositi del latte e del formaggio e le tettoie ove venivano ammassate montagne di lana imballata in attesa del carico per la spedizione.

I pastori più appassionati ed esperti programmavano, nel frattempo, gli accoppiamenti dei cani scegliendo, al momento opportuno, i soggetti più dotati e qualificati nell’eseguire le varie mansioni, secondo precise indicazioni di tipo. Tra l’altro, non escludeva-no incrocio tra Cane Corso e cane da pastore abruzzese allo scopo di ottenere il meglio delle caratteristiche fisiche e attitudinali delle due razze.

I preparativi per il ritorno all’alpeggio cominciavano a maggio ed i pastori, appoggiandosi al bastone, ripercorrevano con gli armenti i tratturi per ritornare ai pascoli estivi ove si sarebbero fermati sino a ottobre. Nel corso della transumanza e nel periodo dell’alpeggio le greggi dovevano temere, oltre all’assalto dei lupi, spesso risolutamente sventato dai cani bianchi, anche l’assalto dell’orso, specie nelle zone del Gran Sasso, della Maiella e del Matese. La facilità nel predare le pecore era per l’orso un irresistibile incentivo a ritentare l’impresa. Si organizzavano perciò delle battute di caccia a piedi o a cavallo con delle mute di Corsi particolarmente forti e temerari, cui si aggiungevano a volte stravieri, un ibrido ottenuto dall’incrocio del Cane Corso col levriero foggiano, ed i cani da pastore abruzzesi.

 L’incontro dei cani con l’orso, una volta sciolti dai canettieri e scovata la preda, era selvaggio e crudele, senza possibilità di replica. I cani potevano sopravvivere solo se riuscivano ad immobilizzare l’orso e se i cacciatori avevano tempismo e perizia nel finire il plantigrado con le picche. La selvaggia crudezza dell’azione ha affascinato più di un artista, tanto da essere immortalata in parecchie opere. Candeloro Cappelletti coglie la dinamica della scena con sfumature di particolare verismo in un suo piatto in maiolica risalente al 1700 ca. L’orso, circondato e trattenuto dalla muta, ormai colpito dalle picche dei cacciatori, tenta l’estrema possibilità di salvezza. Uno straviere è già a terra esanime, un pastore abruzzese lo azzanna veemente, mentre due Corsi si preparano all’attacco.

Caccia all'orso, biscuit di Francesco Gallo, databile tra il 1790 e il 1806; Real Fabbrica Ferdinandea. I cani sono straordinariamente simili ai Corsi attuali.
Caccia all’orso, biscuit di Francesco Gallo, databile tra il 1790 e il 1806; Real Fabbrica Ferdinandea. I cani sono straordinariamente simili ai Corsi attuali.

Ancora più crudo e suggestivo è il biscuit della Real Fabbrica Ferdinandea, opera di Francesco Gallo, datato tra il 1790 ed il 1806. L’orso ha immobilizzato sotto il peso delle sue poderose zampe un Corso, che vanamente cerca un’ultima disperata presa, mentre un altro cane si avventa caparbio sulla fiera.

Ruolo del tutto singolare era quello svolto dal Cane Corso con le capre. Queste, quando non erano inserite nellamorra, in cui erano allevate con le stesse modalità e finalità economiche delle pecore, costituivano spesso delle greggi cui si dedicavano i piccoli allevatori. Era prevalentemente un’attività sussidiaria all’agricoltura che si svolgeva nelle zone limitrofe ai paesi o presso le piccole case coloniche dei contadini. Il capraio prediligeva quasi esclusivamente Corsi dal colore del manto nero o frumentino, cui affidava la conduzione del piccolo gregge e la sorveglianza del pascolo e della sua modesta dimora.

Al mattino e alla sera le capre erano condotte in paese per una distribuzione diretta della mungitura del latte alla clientela. Il Corso teneva riunite le capre e aiutava il capraio a tenere ferma la capretta recalcitrante che rifiutava di farsi mungere, suscitando la simpatia dei presenti. Immagini e situazioni vive tuttora nella memoria degli anziani di Calabria e Lucania.

Al capraio è dedicato un quadro di Filippo Palizzi (1818-1899) intitolato Il profumo dell’erba, datato 1849: un casolare di campagna, un giovane con in spalla un fascio d’erba appena falciata, sei caprette frementi per la voglia di brucarla e l’immancabile Cane Corso dal manto scuro, che riposa tranquillo.

Il Corso doveva essere parte integrante del paesaggio agro-pastorale italiano se, sempre il Palizzi, lo ritrae in un suo quadro, raffigurante un’allegra scampagnata popolata di contadini e frati, accucciato con aria vigile presso la ruota d’un carro. Pastorizia, transumanza ispiratrice d’artisti, scrittori e poeti. Tempi epici, fucina di uomini rudi e gentili avvezzi a dominare la stanchezza, le avversità della stagione, le insidie dell’esistenza, i morsi della nostalgia; avvezzi al raccoglimento, a sentire la natura sulla pelle e nell’anima, a parlare al cane come a un proprio simile e, nei lunghi silenzi, a cogliere la presenza di Dio.

«… Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natìa
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
…E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri
…Isciacquio, calpestio, dolci romori
Ah perché non son io co’ miei pastori?»

(Gabriele D’Annunzio)

Il Corso e i maiali

Da tempo immemorabile l’allevamento dei suini ha occupato un ruolo preminente nell’attività agro-pastorale delle popolazioni europee, per le quali le carni del maiale hanno da sempre avuto un ruolo di rilievo nell’alimentazione.

Le foreste dell’Europa preindustriale, spesso rade, interrotte da spiazzi e dove, attraverso una gamma di formazioni vegetali intermedie, la vegetazione d’alto fusto digradava in pascolo, costituivanol’habitatideale per l’allevamento dei maiali allo stato brado o semibrado.

I suini sono animali d’elevata resa economica, capaci di produrre carne e grasso nutrendosi anche con le risorse alimentari più povere che il bosco offre, quali radici, tuberi, castagne e ghiande. Essi erano un bene talmente prezioso che nella legge salica, risalente alla fine del V secolo, si contano almeno sedici articoli concernenti il furto di maiali. Nel Meridione, in particolare, l’allevamento dei suini rustici, bradi e semibradi è stato comune sino a poco tempo fa e, in casi molto limitati, è tuttora praticato.

Il cane è da sempre un ausilio indispensabile all’uomo, prima nella caccia del maiale nella sua forma selvatica, poi quale guardiano nel suo allevamento domestico. IlSaupacker, letteralmente «assalitore di scrofe», in Germania e il Cane Corso in Italia rappresentano due esempi, straordinariamente simili per caratteristiche morfologiche e attitudinali, di razze perfettamente rispondenti all’impiego summenzionato.

I maiali, eccellenti pascolatori e instancabili camminatori, erano portati al pascolo praticando una transumanza di tipo verticale inversa a quella delle pecore. Dal piano al monte, nei mesi di settembre, ottobre e novembre, allorquando i querceti e castagneti offrono mature ghiande e castagne, tanto che i porcari li definivano mesi dei boschi. Dal monte al piano, per il pascolo dopo la mietitura, come avveniva tra sub Appennino Dauno, Gargano e Tavoliere.

I cani adibiti ai maiali spiccavano per determinazione, per solidità delle masse muscolari, per precisione della presa che i porcari definivano serrata. Infatti, la mansione che dovevano svolgere era tutt’altro che facile, dovendo tenere a bada degli animali particolarmente riottosi, inclini a fuggire nel bosco o a nascondersi nella macchia. In tale caso, il cane doveva scovare il maiale e bloccarlo sino all’arrivo del porcaro, serrando la sua presa al grifo o all’orecchio. Di gran lunga più rischioso era l’affrontare il verro quando si dimostrava minaccioso. Il maschio del maiale è infatti un animale collerico, aggressivo, dotato al pari del cinghiale di pelle spessa e coriacea rivestita di dure setole e che può contare su una massa d’urto di circa 200 chili.

Spesso avveniva che gli effluvi delle scrofe in calore attirassero i maschi di cinghiale i quali, in stato d’eccitazione, rappresentavano un serio pericolo per lamorradi maiali. Aizzati dal porcaro, i Corsi attaccavano con decisione l’intruso sul quale riuscivano sovente a prevalere, procurando ottima carne per sé e per il padrone.

Lamorraandava, inoltre, difesa da predatori quali linci, lupi e orsi e dagli immancabili ladri dediti all’abigeato.

Attorno ai mai al si veniva a creare una vera e propria industria sfruttando le qualità intrinseche della specie, vale a dire la rapidità e il basso costo d’accrescimento, l’elevata prolificità (da 6 a 20 maialini) e la frequenza dei parti. Del maiale si sfruttava tutto, finanche il lardo ed il grasso, utilizzato per la conservazione di cibi. Nel Meridione la tecnica della conservazione delle carni suine sotto sale o insaccate ha radici antichissime, tanto che i Romani chiamavano le salsiccelucaniche, alludendo alla loro terra d’origine, la Lucania. Ben si capisce, quindi, l’elevato valore dato ai maiali e persino come si arrivasse ad utilizzare l’allattamento delle donne per svezzare ilattonzoliin eccesso, che la scrofa non poteva allattare.

Un’appassionata cronaca è quella tramandataci da Enrico Pani Rossi neLa Basilicata (Verona, Cirelli 1868, pag.70): Da quell’industria traggonsi una volta l’anno il costo di misere vesticciole, il denaro dei farmachi, il fitto del tugurio, la dònora per le figliuole, il companatico. Il porco che è solo conforto a vita così misera, ha cure, ne havvi di che stupirne, al pari dei figliuoli. Mescolato tra loro e membro delle famiglie, non gli mancano le moine dei piccoli, il latte delle donne. A tale può giungere la cura dell’allevarlo e chi scrive il vide cogli occhi suoi e gli amorosi sguardi del capo famiglia. ..»

I porcari erano soliti preferire Cani Corsi dal man-to nero, sia per distinguersi dai pastori che adoperavano i cani bianchi d’Abruzzo, sia, soprattutto, per seguire meglio con lo sguardo il cane tra il bianco-rosa dei suini.

I cani potevano beneficiare di una dieta particolarmente ricca e proteica che consisteva in scarti di macellazione, placente e feti, maiali morti per trauma o malattia, lattonzoli nati morti o schiacciati inavvertitamente dalla scrofa. Nei periodi in cui non vi erano parti o macellazioni ai cani veniva dato il pane canino, che la massaia otteneva impastando, massando, la farina assieme alla crusca, caniglia, e riducendo l’impasto in panetti tondi che venivano cotti in forni alimentati a paglia assieme al pane destinato all’uomo. Il pane veniva sfornato una volta alla settimana in relazione al numero di cani. Dobbiamo in alcuni casi a questa attività la conservazione di piccole tribù di Cani Corsi rimaste in autentica rusticità, dalle quali a fatica si è prelevato qualche esemplare utilizzato dalla S.A.C.C. per il recupero della razza. Inoltre, i cani sovente integravano l’alimentazione di rito offerta dall’uomo con quanto potevano reperire nei boschi e nella macchia mediterranea: roditori, tassi, frutta e persino pesci pescati a zampate nei ruscelli o nei laghetti. Più degli altri, quindi, i cani dei porcari spiccavano per dimensioni e robustezza.

In estate si usava spesso praticare il pascolo notturno portando la morra al pascolo nella frescura della notte e riparandola all’ombra dei grandi querceti lungo le sponde dei fiumi o dei laghi nella calura diurna, La scrofa pregna, all’approssimarsi del parto, veniva lasciata allontanarsi dallamorraaffinché potesse trovarsi, nel bosco, un posto tranquillo e riparato in cui partorire. Solo dopo alcuni giorni, il porcaro, a cavallo di un asino con due ceste di vimini attaccate al basto, andava a cercarla, confidando nell’abilità del suo Corso nel fiutarne la traccia per recuperare i lattonzoli. A tal fine l’intervento del cane era indispensabile, in quanto la scrofa avrebbe aggredito chiunque si fosse avvicinato ai suoi piccoli. Pertanto il cane doveva immobilizzare la scrofa serrando la presa al grifo o all’orecchio, permettendo nel frattempo al porcaro, attirato dai grugniti, di identificare il luogo del parto e di trasferire i lattonzoli nei cesti di vimini.

Solo allora il porcaro richiamava il cane, in quanto la scrofa, ormai ammansita, lo avrebbe seguito docilmente sino al porcile della masseria dove assieme ai suoi piccoli si sarebbe riunita allamorra. Per tali mansioni i cani non seguivano nessun particolare addestramento apprendendole in modo naturale sin da cuccioli osservando gli adulti.

Compito più impegnativo e delicato era quello affidato al Corso in relazione ad un’usanza in essere sino ad una trentina d’anni fa nel Meridione. Alle fiere di primavera, in alcuni paesi, le famiglie usavano acquistare un maialino allo scopo di allevarlo e di macellarlo a tardo autunno, ormai adulto. L’ingrasso del lattonzolo era seguito con particolari cure e attenzioni. Di buon mattino, veniva affidato al porcaro che, accompagnato da una coppia di Cani Corsi, lo prelevava per portarlo al pascolo. Passando di casa in casa lamorraaumentava di numero, finanche più di cento maiali, e di pari passo il compito dei cani, nel tenerla unita e guidarla, diveniva più gravoso. Solo il legame particolarmente intenso e di reciproco affiatamento, quasi di simbiosi, che s’instaurava tra cani e porcaro durante le lunghe ore di solitudine trascorse al pascolo, permettendo loro d’intendersi con un semplice sguardo o gesto, consentiva loro di portare senza inconvenienti lamorraa destinazione. I boschi di ca- stagni, cerri o querce offrivano ai maiali un pascolo abbondante che durava sino a sera, allorquando porcaro e cani li riconducevano al paese restituendoli ai proprietari che, ricoveratili nella stalla, gli elargivano un ulteriore pasto con una brodaglia di avanzi di cucina, sfarinati e crusca, versata calda nel trogolo.

A fine stagione, il porcaro riceveva per ogni maiale un compenso in natura secondo le usanze e le risorse agricole della zona: due staia d’olio (40 litri) o un tomolo di grano (45 kg) oppure tre mezzetti di granone (70 kg) o altro. Con ciò il porcaro poteva arricchire la sua mensa e mantenere la sua famiglia. Al maiale erano dedicate tali cure e premure che tutt’oggi si accomuna la persona delusa e avvilita allo stato d’animo di colui che abbia «perso il porco».

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Tratto da “Il Cane Corso – Origini e prospettive del Molosso Italico” (Editore Mursia 1996) per gentile concessione degli autori Ferdinando Casolino e Stefano Gandolfi (soci fondatori della Società Italiana Cane Corso).

Dopo la caduta dell’Impero Romano, la nuova società feudale romano-germanica, che diede vita alla cultura medioevale, cambiò, assieme alla geografia economico-sociale d’Europa, anche il nome dell’anticopugnaxromano. Si cominciò infatti a chiamare Cane Corso il molosso italico, come testimonia una vasta bibliografia, che spazia in un arco temporale che dal Medioevo ci porta ai nostri giorni.

L’origine del nome è controversa e le varie ipotesi sull’etimo sono già state trattate. È tuttavia doveroso sottolineare come, assieme al termine Corso, anche quelli di mastino, dogo, alano, molosso, fossero indistintamente utilizzati per indicare i cani molossoidi in genere. L’origine di questa confusione terminologica è probabilmente da ricercarsi nella amalgama e nella sovrapposizione di vari ceppi linguistici, dovuti alle invasioni barbariche, con la conseguente nascita delle lingue romanze nell’Europa latina.

Ritroviamo così il termine mastino nel francesemâtin, dove sembra indicare più il cane da pastore che il molosso, che invece l’inglese chiamamastiff.

Dogo, nel francese diventadoguee nel tedescodogge(Deutsche Dogge è tuttora il nome tedesco dell’alano), termini che si riferiscono certamente al molosso, derivando dall’inglesedogche anticamente indicava una possente razza di cani, in quanto, in inglese antico, genericamente il cane erahund(hound).

Preferiamo non approfondire l’aspetto di ricerca dell’origine etimologica di tali termini, certamente interessante e controversa quanto quella dell’etimo Corso, ma sottolineare invece che, oltre ai diversi modi summenzionati di indicare il molosso, le invasioni barbariche portarono nuovi ceppi molossoidi che sicuramente contribuirono a rinsanguare ed a differenziare ulteriormente gli antichicanes pugnaces romani. La storiografia non ci fornisce purtroppo la chiave di lettura per identificare con l’uno o l’altro termine una precisa tipologia di molosso.

 Dei cani si cantano le lodi, le virtù, la prestanza fisica, ma le descrizioni morfologiche sono troppo rare e generiche per permettere di distinguere, con moderni parametri cinotecnici, l’una o l’altra razza. Del resto, come avremo modo di approfondire, il concetto di razza è stato, sino alla soglia dei nostri giorni, molto generico e per lo più serviva ad indicare le caratteristiche morfo-funzionali ottimali per un determinato impiego del cane.

Miniatura di Giovannino de’ Grassi (XIV sec.) raffigurante veltri, leporari magni e molossi che si avventano su un cinghiale.
Miniatura di Giovannino de’ Grassi (XIV sec.) raffigurante veltri, leporari magni e molossi che si avventano su un cinghiale.

L’utilizzo prevalente del Cane Corso fu nella caccia alla grossa selvaggina, come innumerevoli testimonianze iconografiche e storiografiche medioevali e rinascimentali ci tramandano. Una miniatura di Giovannino de’ Grassi, risalente al 1390 ca., intitolataCacia di porco cingiate, illustra una muta di sette cani che azzannano un cinghiale ormai esanime. Tre di questi hanno una testa con caratteristiche molossoidi molto marcate: il muso è cortissimo, il cranio largo. Tuttavia il corpo presenta arti allungati, ventre leggermente retratto, struttura asciutta e nevrile tipica dei cani atti ad inseguire la preda (un’altra miniatura del de’ Grassi descrive in modo più esplicito un molosso prognato con le stesse caratteristiche). Il resto della muta è composto da due levrieri e da due esemplari con connotazioni molossoidi più lievi, probabilmente frutto di un incrocio tra molosso e levriero molto comune all’epoca, chiamatoleporarius magnus.

Molosso brachignato, prognato. Miniatura di Giovannino de’ Grassi (1390). Îl corpo atletico, nevrile e asciutto ricorda quello dell'odierno Cane Corso
Molosso brachignato, prognato. Miniatura di Giovannino de’ Grassi (1390). Îl corpo atletico, nevrile e asciutto ricorda quello dell’odierno Cane Corso

Incredibilmente simili al Cane Corso sono, invece, i molossi raffigurati in un affresco di un palazzo patrizio veronese risalente al 1400 ca., anch’essi impegnati nella caccia al cinghiale. Il letterato e umanista Giulio Cesare Scaligero (1484-1558), nella sua traduzione commentata in latino dellaStoria degli animali di Aristotele, parla di cani di grossa taglia, capaci di affrontare tori e cinghiali, chiamati alani, Corsi, dogas. Li descrive, purtroppo, senza distinguere l’uno dall’altro, dalle dimensioni di vitelli di tre mesi, con grosse fauci ed arti bovini.

Affresco di un palazzo patrizio veronese raffigurante Cani Corsi impegnati nella caccia al cinghiale (1400 ca.)
Affresco di un palazzo patrizio veronese raffigurante Cani Corsi impegnati nella caccia al cinghiale (1400 ca.)

Non accenna alla morfologia neppure Teofilo Folengo (1491-1544) che, nel manoscritto in latino maccheronico dettoBaldus, si diletta a descrivere alcuni tipi di caccia in cui è impiegato il Cane Corso: «(…) Come spesso avviene, allorché l’orso graffiante viene circondato da i Cani Corsi e dalle uncinate lance degli uomini (…) Non altrimenti ruggisce il leone, ferito dal cacciatore quando il dente e l’unghia inutilmente affonda nei Cani Corsi o nei molossi (…)».

Dell’impiego venatorio del Corso ci è lasciata traccia anche in una lettera che Federico Gonzaga, duca di Mantova, indirizzò nel 1530 al re di Polonia che gliene chiedeva alcuni esemplari: «lo haveva bene alcuni cani corsi, ma in le cacce che si son fatte in questi giorni mi sono stati morti dalli cingiari».

Il naturalista svizzero Konrad von Gesner (1516 — 1565) nella suaHistoria Animalium, edita in latino, sezioneDe Quadrupedibus, dedica un capitolo alDe Cane Venatico Robusto, Adversus magnas aut fortes Feras in cui descrive, con inusuale dettaglio per l’epoca, il Cane Corso: «Alberto (si riferisce ad Alberto Magno,1193-1280, filosofo e teologo domenicano che tradusse le opere di Aristotele) traduce “molosso” con “mastino”: parole in uso presso gli ita- liani e gli inglesi, ma di cui non conosco l’origine, so solo che mastino racchiude la parola Massimo. I tedeschi lo chiamanoRüden(rozzo), forse proprio perché è un cane rude. (…) in Corsica ci sono molti cani feroci; intrepidi nell’inseguimento e nella presa di ogni tipo di animali. Si devono scegliere quelli forniti di muso impressionante, di testa molto larga, con il labbro superiore pendente sull’inferiore, con occhi rosseggianti, con narici dilatate e che sembrino emettere vapori di fuoco, con denti aguzzi, con poderoso collo, con petto largo; avanzino superbi come leoni, con grandi piedi e con sproporzionate dita, le unghie siano dure e ricurve in modo che meglio aderiscano al suolo e abbattano con più violenza la preda. Con questo tipo di cani i cacciatori possono con facilità raggiungere e catturare la selvaggina. In Italia e soprattutto a Roma si dice che ci si serve dei Cani Corsi (Curshund) contro cinghiali e tori selvatici. (…) Il molosso è di grande taglia e gran morditore, come il Cane Corso. Ritengo che lo si consideri morditore, non perché azzanni senza ragione, ma perché ha una presa energica e a stento molla il morso inflitto alle fiere. Del resto, io so che il Cane Corso, quando ha ficcato le zanne nel cinghiale o nel toro selvatico, non può essere separato dalla preda senza l’intervento deciso del cacciatore sulle mandibole serrate.»

Riteniamo che il brano sia di grande interesse, in quanto da esso possono essere ricavati alcuni indizi utili alla nostra ricerca. Anzitutto la distinzione, già presente nel Folengo, tra molosso o mastino e Cane Corso: la morfologia è simile, tuttavia il Corso è adatto non solo ad abbattere la preda, ma anche ad inseguirla. In secondo luogo ci conferma il significato di Cane Corso come cane robusto.

Anche se il Gesner traduce in latino Cane Corso conCanum ex Corsica o Corsicanum, lasciandosi ingannare dal nome, titola il capitoloDe Cane Venatico Robusto, cioè «del cane da caccia robusto», utilizzato non in Corsica, ma in Italia, specie a Roma.

Tito Giovanni Scandiano nel suo Poema della Caccia (1556), ci fornisce altre utili indicazioni sull’utilizzo del nostro cane: «… altri, detti Corsi, per assalire, mordere e tener cinghiali, orsi e lupi». Tuttavia la più efficace ed affascinante celebrazione poetica del Cane Corso è quella fatta da Erasmo da Valvasone (1523-1593) nel suo poemaLa Caccia:

Canto Primo

«Il Corso ha gran possanza, ardito assale
La fera, et la ritien: poiché l’ha presa,
Sciorre il dente non sa: ma poco vale
Per raggiungerla poi, che in fuga è stesa:
Non ha del ciel sortita al nome eguale
Prestezza il corpo suo, che troppo pesa:
Et la virtù diffusa in si gran seno Mal lo riempie e ne vien tosto meno».

consigliando quindi un tipo costituzionale adatto a cacciare l’orso, il lupo o il cinghiale lo vuole:

Canto Secondo

«Simile al veltro in tutti i membri suoi
O sia corso, od alano, o forse uscito
Fuor dell’Epiro, o de la gran Bretagna,
Come il veliro sia destro, et sia spedito,
Ma di persona più gagliarda et magna:
Sia grosso, ma non grave, od impedito 
Da tanta mole, che la lena fragna: 
Abondi di grand’ossa, et di gran nerbo,
Et sia facile a l’ira, aspro et superbo.»

ricerca perciò un tipo con morfologia più leggera rispetto a quella del Canto Primo, esigenza dettata dalla necessità di avere un cane più funzionale, certamente molto simile al Cane Corso attuale.

Un’altra testimonianza poetica di notevole interesse è quella che Giambattista Marino (1569-1625) fa nel suo idillio dedicato al mito di Atteone, incluso nella raccolta LaSampogna. Nel descrivere la caccia ad Atteone, cacciatore così abile da esser tramutato per vendetta in cervo da Artemide, dea della caccia, e quindi inseguito e sbranato dai suoi stessi cani, il Marino ordina questi ultimi in base alle loro doti di inseguitori:

«I veltri iberi e franchi sono i primi alla pesta.
Più lontani e più lenti vengon gli alani e i corsi.
Seguono i medi e i persi temerari e ardenti…»

Gli alani e i Corsi sono superati in velocità solamente dai levrieri e seguiti a ruota da medi e persi, cani difficili da identificare, ma che potrebbero essere proprio gli antichi molossi orientali.

Reggia di Caserta, fontana di Atteone e Diana (1790): visibile, sulla sinistra, un esemplare di Cane Corso con gli orecchi mozzi.
Reggia di Caserta, fontana di Atteone e Diana (1790): visibile, sulla sinistra, un esemplare di Cane Corso con gli orecchi mozzi.

La splendida fontana dedicata al mito di Atteone e Diana, ubicata nel parco della Reggia di Caserta e risalente alla fine del Settecento, tuttora coniuga straordinariamente poesia e scultura: nella pietra sono immortalati cani che vanno dal levriero, al Corso, al più pesante mastino napoletano. Certamente le doti di versatilità ed ecletticità del Cane Corso contribuirono non poco al successo che la razza ebbe sino a pochi decenni fa. La razza era così presente nella vita di tutti i giorni da entrare nel linguaggio comune e addirittura essere utilizzata come termine di paragone.

Niccolò Machiavelli (1469-1527), in un poemetto incompiuto,L’Asino, include la razza nel paesaggio poetico:

«Vidi una volpe maligna e ‘mportuna
che non truova ancor rete che la pigli;
e un Can corso abbaiar alla luna».


Il Corso compare anche nelPoemetto in onore del Cardinale Scipione Borghese (1628), scritto per celebrare la villa appena terminata in Roma:

«Qui li ciechi lepier e corsi
Can, di ferocità rabbiosa armati
Affrontar lupi, apri, leoni et orsi
Co’ i cacciator suoi vedrete entrati».

Presso le corti rinascimentali la razza doveva essere molto apprezzata e utilizzata, non solo per la caccia alla grande selvaggina, ma anche per i combattimenti contro altri cani od altri animali quali tori, orsi e grandi felini. Tali combattimenti non erano esclusivamente prerogativa dell’aristocrazia di corte, ma anzi erano spesso utilizzati per grandi spettacoli di piazza. Il coinvolgimento del popolo e l’atmosfera eccitata che si veniva a creare è magnificamente raffigurata nel quadro intitolatoCaccia ai tori in Piazza San Marco(1750) di Antonio Canal, detto il Canaletto, e G Battista Cimaroli.

I tori sono resi inoffensivi al pubblico perché trattenuti da lunghe funi, tuttavia conservano tutta la loro capacità di offesa nei confronti dei cani che, eccitati dai canettieri e dalle urla della folla, si avventano al musello e all’orecchio dei bovini. Impiego ben diverso è quello che, specie durante il Medioevo e Rinascimento, si fece del molosso quale cane da guardia alle costruzioni di difesa e quale strumento bellico. Sino all’avvento delle armi da fuoco le potenzialità dei cani soldati furono apprezzate, specie contro la cavalleria. Un magnifico esempio di bardatura da guerra per cani è quella esposta al Museo delle armature di Salisburgo.

Molossi con bardatura da guerra (Museo delle Armature di Salisburgo)
Molossi con bardatura da guerra (Museo delle Armature di Salisburgo)

Il Cane Corso fu sempre all’altezza dei vari compiti che l’uomo gli affidò nel corso della storia, tanto che il suo nome divenne sinonimo di coraggio e determinazione. Si legge infatti nelDizionario della lingua italiana di Nicolo Tommaseo (1802-1877): «Can corso, uomo di aspetto ed attitudine fiera».

L’efficacia e la solidità della sua presa erano così proverbiali che Giovanni Verga (1840-1922) usa nel suo celebre romanzoI Malavoglia il detto: «… morde peggio di un Cane Corso…».

Bartolomeo Pinelli (1781-1835), celebre incisore e scultore romano, amava includere il Cane Corso nelle sue opere. Bellissimo è l’autoritratto con un tipico esemplare di Corso sdraiato ai suoi piedi.

Tuttavia fu nel Regno delle Due Sicilie che la razza conobbe i suoi momenti di massimo splendore. I Borboni di Napoli furono grandi estimatori di questi cani, tanto che ad essi si ispirarono per i loro soggetti molti degli artisti che frequentarono la corte partenopea. Ma fu con le genti del Regno di Napoli che nei secoli si strinse un legame inscindibile col Cane Corso, tanto da essere parte integrante della loro economia, dei loro costumi e persino delle loro tradizioni, proverbi e leggende.

Cane Corso fulvo con maschera nera; presepe napoletano (XVIII sec.)
Cane Corso fulvo con maschera nera; presepe napoletano (XVIII sec.)

NelVocabolario Siciliano-Italiano per la interpretazione dei sogni ad uso dei Giocatori del Regio Lotto al Cane Corso è abbinato il numero ventidue e statuine riproducenti la razza sono parte dei più suggestivi e famosi presepi partenopei. Il legame tra il Corso e il nostro Meridione è tale che l’orizzonte storico sfuma in un amalgama di passato e presente, di vissuto e quotidianità così ampio e interessante da meritare di essere trattato in una apposita sezione di questo libro.

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